di Lucia Bigozzi  La devastazione, le sirene, le vittime. Sei giorni nell’inferno di Antiochia, devastata dal terremoto. Duemila palazzi sbriciolati, i morti che non finiscono mai, i sacchi neri, pronti per accogliere ciò che resta di persone, vite, sogni.  Samuele Pacchi, 40enne, infermiere e coordinatore del 118 e Sara Montemerani, 34 anni, medico dell’emergenza, hanno visto una città piegata e famiglie rotte dalla furia del sisma. Oggi tornano a casa, la missione è conclusa, ma Samuele porta con sè immagini indelebili di un’esperienza che lo ha segnato. "Ho visto la disperazione sui volti delle persone ma ogni volta che incrociavano il nostro sguardo, i loro occhi si riempivano di speranza. Noi abbiamo solo cercato di dare una mano", dice dall’altro capo del telefono il "gigante buono" cortonese mentre Sara si dà da fare: bisogna far partire piccole stufe per riscaldare il campo tenda allestito nella zona dello stadio: "La temperatura è abbondantemente sotto lo zero, dobbiamo organizzarci per la notte", suggerisce. Per loro è l’ultima notte nella città dove la conta dei morti è diventata il metronomo che scandisce le attività della giornata e nel via vai delle sirene che urlano nel silenzio del nulla. Ieri Sara e Samuele insieme ai vigili del fuoco della squadra Usar (Toscana e Lazio, ne fanno parte anche i pompieri aretini Fabio Conti e Filippo Barbagli) hanno lavorato nel"cantiere" assegnato alla ricerca di persone, vite da strappare alla morte. "Purtroppo abbiamo recuperato i corpi di tre persone tra le quali quelli di un padre e del figlio di 7 anni. Erano vicini, come per proteggersi in un ultimo abbraccio", racconta Samuele, alla sua prima missione, esattamente come Sara che si sofferma "sulla efficienza del team che ha lavorato in condizioni difficili. La squadra ha funzionato, come del resto abbiamo imparato al corso Usar sostenuto insieme ai vigili del fuoco. Un’eccellenza toscana".  Samuele torna al racconto delle ore che sembrano anni, quando sei lì a cercare chi speri sia ancora vivo. Decrive come "immensa e inimmaginabile la gioia di portare fuori dalle macerie il ragazzo di 22 anni che abbiamo salvato. E’ un’esperienza straordinaria che ti fa riflettere sul valore della vita e l’importanza di un impegno, di una formazione pensati proprio per salvare chi è in condizioni critiche".  Emozioni fortissime e contrastanti: ci vorrà tempo per metabolizzarle. Perchè se due giorni fa Sara e Samuele insieme alla squadra Usar hanno salvato un ventenne, ieri hanno recuperato solo corpi senza vita. E qui prevale "l’amarezza per non aver potuto fare di più". Ma i giorni nell’inferno di Antiochia rappresentano anche una grande scuola di "umanità. Vivendo in prima persona un’esperienza del genere, ti rendi conto che di umanità in giro ce n’è ancora molta, nonostante le guerre e la violenza". La rintracci nei volti dei soccorritori, stremati dalla fatica ma che non mollano; tra le lacrime di genitori che non rivedranno più i figli.  Già, i bambini. L’immagine che Sara porta con sè da Antiochia, rimanda proprio ai più piccoli. "Purtroppo sono tantissimi quelli che non ce l’hanno fatta, è straziante il recupero delle piccole salme perchè ci sono i familiari che aspettano vicino alla zona delle ricerche e sperano fino all’ultimo e perchè non vorresti mai vedere un bimbo in quelle condizioni". Ma la vita è più forte e lo capisci quando Samuele racconta del legame stretto con uno dei soccorritori turchi delle squadre di Protezione Civile. "Quando siamo arrivati erano in condizioni logistiche complesse perchè il terremoto aveva distrutto buona parte della loro struttura. E’ un ragazzo che per una settimana ha partecipato alle operazioni senza mai a riposare. E’ stato lui a fare da interprete tra noi e la gente in attesa. E’ stato lui a dover dare le notizie più tragiche". Samuele e Sara hanno lavorato con lui fianco a fianco ed è nata un’amicizia. "Ci siamo salutati e lui ha detto che se andrà tutto bene, ad agosto verrà in Italia e ci rivedremo".

Cronaca

di Lucia Bigozzi

La devastazione, le sirene, le vittime. Sei giorni nell’inferno di Antiochia, devastata dal terremoto. Duemila palazzi sbriciolati, i morti che non finiscono mai, i sacchi neri, pronti per accogliere ciò che resta di persone, vite, sogni. 
Samuele Pacchi, 40enne, infermiere e coordinatore del 118 e Sara Montemerani, 34 anni, medico dell’emergenza, hanno visto una città piegata e famiglie rotte dalla furia del sisma. Oggi tornano a casa, la missione è conclusa, ma Samuele porta con sè immagini indelebili di un’esperienza che lo ha segnato. "Ho visto la disperazione sui volti delle persone ma ogni volta che incrociavano il nostro sguardo, i loro occhi si riempivano di speranza. Noi abbiamo solo cercato di dare una mano", dice dall’altro capo del telefono il "gigante buono" cortonese mentre Sara si dà da fare: bisogna far partire piccole stufe per riscaldare il campo tenda allestito nella zona dello stadio: "La temperatura è abbondantemente sotto lo zero, dobbiamo organizzarci per la notte", suggerisce. Per loro è l’ultima notte nella città dove la conta dei morti è diventata il metronomo che scandisce le attività della giornata e nel via vai delle sirene che urlano nel silenzio del nulla. Ieri Sara e Samuele insieme ai vigili del fuoco della squadra Usar (Toscana e Lazio, ne fanno parte anche i pompieri aretini Fabio Conti e Filippo Barbagli) hanno lavorato nel"cantiere" assegnato alla ricerca di persone, vite da strappare alla morte. "Purtroppo abbiamo recuperato i corpi di tre persone tra le quali quelli di un padre e del figlio di 7 anni. Erano vicini, come per proteggersi in un ultimo abbraccio", racconta Samuele, alla sua prima missione, esattamente come Sara che si sofferma "sulla efficienza del team che ha lavorato in condizioni difficili. La squadra ha funzionato, come del resto abbiamo imparato al corso Usar sostenuto insieme ai vigili del fuoco. Un’eccellenza toscana". 
Samuele torna al racconto delle ore che sembrano anni, quando sei lì a cercare chi speri sia ancora vivo. Decrive come "immensa e inimmaginabile la gioia di portare fuori dalle macerie il ragazzo di 22 anni che abbiamo salvato. E’ un’esperienza straordinaria che ti fa riflettere sul valore della vita e l’importanza di un impegno, di una formazione pensati proprio per salvare chi è in condizioni critiche". 
Emozioni fortissime e contrastanti: ci vorrà tempo per metabolizzarle. Perchè se due giorni fa Sara e Samuele insieme alla squadra Usar hanno salvato un ventenne, ieri hanno recuperato solo corpi senza vita. E qui prevale "l’amarezza per non aver potuto fare di più". Ma i giorni nell’inferno di Antiochia rappresentano anche una grande scuola di "umanità. Vivendo in prima persona un’esperienza del genere, ti rendi conto che di umanità in giro ce n’è ancora molta, nonostante le guerre e la violenza". La rintracci nei volti dei soccorritori, stremati dalla fatica ma che non mollano; tra le lacrime di genitori che non rivedranno più i figli. 
Già, i bambini. L’immagine che Sara porta con sè da Antiochia, rimanda proprio ai più piccoli. "Purtroppo sono tantissimi quelli che non ce l’hanno fatta, è straziante il recupero delle piccole salme perchè ci sono i familiari che aspettano vicino alla zona delle ricerche e sperano fino all’ultimo e perchè non vorresti mai vedere un bimbo in quelle condizioni". Ma la vita è più forte e lo capisci quando Samuele racconta del legame stretto con uno dei soccorritori turchi delle squadre di Protezione Civile. "Quando siamo arrivati erano in condizioni logistiche complesse perchè il terremoto aveva distrutto buona parte della loro struttura. E’ un ragazzo che per una settimana ha partecipato alle operazioni senza mai a riposare. E’ stato lui a fare da interprete tra noi e la gente in attesa. E’ stato lui a dover dare le notizie più tragiche". Samuele e Sara hanno lavorato con lui fianco a fianco ed è nata un’amicizia. "Ci siamo salutati e lui ha detto che se andrà tutto bene, ad agosto verrà in Italia e ci rivedremo".

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