Storie di quarantena, il Penna: "Semino i fagioli a un metro di distanza"

«Ed è un problema mettere la mascherina alle patate». Nell’orto e nel bosco la clausura del cabarettista del vernacolo. «Ora tutti sceriffi»

Santi Cherubini

Santi Cherubini

Arezzo, 17 aprile 2020 - «Sto seminando i fagioli, a un metro uno dall’altro, come da decreto, ma per avere lo stesso raccolto dell’anno scorso devo quadruplicare il terreno. Mettere la maschera alle patate invece è un problema, i fagioli dall’occhio m’hanno preso la congiuntivite, il gobbo ha la scoliosi e la zucchina dal collo ha il torcicollo. In compenso a me con la quarantena non è cambiato niente».

Dalla sua casa in campagna a Chiani con orto e olivi e un po’ di bosco Santi Cherubini racconta la sua quarantena. «Sì, ma non chiamatemi Santi Cherubini, che con questo nome non mi conosce nessuno, mettete Il Penna degli Avanzi di Balera, allora sì che gli aretini capiscono chi sono».

Accontentato signor Penna, come passa la quarantena? «Quando non lavoro nell’orto o nel bosco a ripulire le querci, quando non sto con i miei animali o a lavorare nei campi col trattore, leggo i giornali, mi guardo intorno, prendo appunti. Vengono un sacco di idee, magari per qualche spettacolo futuro. Trovo la quarantena stimolante, sviluppa l’ironia, siamo capaci di scherzate su tutto».

Come interpreta quello che stiamo vivendo? «Finora eravamo convinti che il mondo si cambiava attraverso cose grandiose, costruendo strade, avanzando con i bulldozer, modificando i paesaggi. Questo ci insegna che il cambiamento vero avviene nell’infinitamente piccolo, per dirla all’aretina, son le rugie che cambiano il mondo non le ruspe. Comunque un pregio questa cosa ce l’ha, è democratica, ha messo tutti allo stesso livello».

E qual è stato il suo cambiamento? «Io sono sempre stato in quarantena, ho lavorato per trent’anni in una fabbrica orafa poi a 50 ho deciso di fare l’artista, tardi, senza averne la mentalità, e infatti ho cominciato a fare il povero, a vivere di espedienti, ma con un sacco di tempo a disposizione. Con la mente libera dall’orologio ho mantenuto il mio stile di vita da eremita. Mi occupo di agricoltura, orticoltura, giardinaggio che porto avanti qui a Chiani, ho un sacco da fare e un sacco di attrezzi che ci scambiamo tra vicini».

Nessuno protesta quando la vede lavorare fuori? «Certo che sì, siamo diventati il paese degli sceriffi. Sono stato minacciato mentre ero nel bosco, da solo, senza nessuno intorno. Siamo in guerra contro un nemico invisibile, solo che noi la facciamo da casa, in smart working lanciamo bombe dalla finestra».

Il virus ha cambiato il nostro modo di vivere ma anche di parlare... «Abbiamo il vocabolario del virus, da ‘nemico invisibile’ siamo passati ad ‘asintomatico’. Ma l’asintomatico è sempre esistito. Pensiamo agli imbecilli asintomatici, pericolosissimi perché non sanno di esserlo, fanno danni inenarrabili e sono a lenta cessione. Ora ce ne sono tantissimi sui social».

Ma qualcosa di buono il virus ci lascerà? «Quello che potremmo fare di buono è tornare alla terra, c’è tanta incolta. Una volta nei paesi tutti avevano un orto, ora vengono da me a chiedere pomodori e zucchine, ma non ne ho per sostenere un paese. Per il resto, dopo la corsa alla sopravvivenza ci sarà la corsa a riagganciare la vita di prima».