Quella "pandemia" che fece strage di poveri Colera, la città in balìa del nonno del Covid

Una cinquantenne primo caso nel 1855, poi la diffusione dentro le mura: e c’era chi osteggiava la profilassi temendo avvelenamenti

Migration

di Alessandro

Garofoli

Il colera, “morbo asiatico” per l’origine geografica, era provocato dal Vibrio cholerae, bacillo che si riproduceva nell’apparato digerente. Nell’800, per lo sviluppo dei movimenti militari e commerciali inglesi in India e l’uso delle macchine a vapore, che facilitavano i viaggi, il vibrione si diffuse nel pianeta. In Europa era il secolo dello sviluppo industriale, da cui originò la crescita demografica e delle città. Così si moltiplicarono rifiuti e germi, condizioni ideali per le epidemie.

Sei infestarono l’Italia: 1835-’37, 1849, 1854-’55, 1865-’67, 1884-’86, 1893. Due decenni dopo la prima, le abitudini igienico sanitarie non erano progredite. Il caso volle che, nel ’54, una nave salpata dall’India portasse il colera in Inghilterra: da qui partì la terza fase. Da Londra attaccò Parigi, Marsiglia, quindi l’Italia. Nel 1855 traversò la penisola: dal Piemonte al granducato, al ducato di Modena, allo Stato pontificio, al Sud. Il focolaio si spense nel 1856, dopo aver vessato 4.468 comuni italiani contro i 2.998 della prima epidemia e i 364 della seconda. I morti furono 284.514; 146.383 nel primo contagio, 13.359 nel secondo.

Fino a metà del ’55 Arezzo era rimasta indenne, ma d’estate un velo funereo colpì vallate e capoluogo. Lo stato della città era già critico, favorendo la diffusione. La povertà era a livelli quasi senza precedenti: rare le manifatture e commercio fermo, mancava il lavoro e cittadini e campagnoli vegetavano miseramente. A peggiorare il quadro contribuì la crisi della raccolta dell’uva. Il vino, “tanto utile in simili frangenti”, non si trovava neppure a costi inusuali. Se la malattia infieriva sugli umani, l’atmosfera era grigia, opprimente; in un caldo afoso le nubi coprivano il sole. A fine primavera, captando notizie dalle città vicine, Arezzo attendeva l’epidemia.

Alle 10.30 del 9 luglio 1855 - estrapoliamo dal rapporto di Francesco Sforzi, protagonista della lotta al contagio -, fu accolta negli Ospedali Riuniti Maria Ercolani, cinquantenne. I sintomi non lasciavano dubbi: era affetta dal Choléra Morbus. Il primo caso registrato ufficialmente ad Arezzo, giacché i rapporti precedenti avevano dato esiti negativi. In realtà una prima diagnosi, con decesso del fornaio Perticucci, di Colcitrone, era stata occultata dalla censura.

Grazie a un’opportuna intuizione i dirigenti dell’ospedale, in primis il responsabile Francesco Turini, avevano creato un lazzeretto per i colerosi nell’ex Convento di S. Croce, ove era il distretto militare. Fu aperto il 10 luglio 185, per evitare che gl’infetti, in ospedale, spargessero la malattia.

In pochi giorni il contagio provocò momenti tragici. Il giorno 12 il prefetto Fineschi girò al Rettore degli Spedali una nota nella quale il Granduca decretava la necessità che fosse eletta una Deputazione sanitaria, per il coordinamento, presieduta dallo stesso Fineschi, in collaborazione con il Rettore, il gonfaloniere Occhini, mons. Mazzoni, proposto della Cattedrale, i dottori Sebastiano Fabroni e Francesco Sforzi. Questi ebbe l’incarico di primo medico.

La situazione sociale dentro le mura favorì l’epidemia. L’igiene, solo rimedio concreto, era pessima nelle case quanto in ospedale. Nell’agosto 1955 si ebbe la fase acuta, poi scese, con rari casi autunnali. Solo nel lazzaretto, chiuso il 27 novembre, erano stati contati 417 decessi. L’11 del mese, in Cattedrale, fu celebrata la Messa di ringraziamento per la fine della calamità.

Sin dalle prime ore dalla comparsa del colera vi erano state agitazioni. Parte della cittadinanza osteggiava la profilassi e rifiutava le cure, temendo avvelenamenti. Con diffidenza verso il potere, superstizione, ignoranza ma anche sospetti non infondati. Sforzi scoprì che alcuni malati erano stati sepolti prima di accertarne la morte.

All’untore la fantasia popolare aveva aggiunto figuri che somministravano medicine tossiche (boccettine). Fra i sospettati anche membri della classe medica, molestati verbalmente e fisicamente. Le autorità erano tacciate di “volere la morte dei soli poveri”.

Fra i sacerdoti vi fu chi addebitò il colera alla divinità, mossasi per punire le nefandezze umane. Altri a combinazioni planetarie e meteorologiche. Non pochi parlarono di avvelenamenti governativi per colpire le masse. Ci si abbandonava a esibizioni di religiosità prossime alla superstizione e all’individuazione degli avvelenatori, di solito emarginati o stranieri di passaggio, talvolta persino medici o pubblici funzionari.

Epidemia prevalentemente urbana, traeva dalla sporcizia e dalle acque malsane la linfa vitale. Il morbo mise in luce la disuguaglianza di fronte alla morte: i poveri furono i più colpiti, le condizioni sociali decidevano la mortalità.

Il vibrione innescò misure restrittive che limitarono i diritti individuali e civili, ma non bastarono a far sì che le precauzioni fossero rispettate. Era frequente che le classi inferiori si affidassero a ciarlatani e guaritori: costoro, con rimedi improbabili che la gente sentiva vicini alla tradizione (erbe, foglie, radici, misture), sfruttavano una familiarità con il popolo sconosciuta ai medici di professione.