Quei grandi maestri della musica che risollevarono le sorti di Arezzo

Soppiantata nel Cinquecento dall’avanzata della cultura scientifica, la città fu capace di rispondere. attraverso le note grazie a Paolo Aretino e a Orazio Tigrini che scrisse un compendio di successo europeo.

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La grande kermesse musicale che da una diecina di giorni a questa parte ha confermato alla nostra città il primato mondiale in fatto di polifonia e coralità, e che culmina proprio stasera alle 21,15 nella Chiesa di San Michele con il concerto dedicato alle “perle” del Rinascimento, ci induce a ribadire qualche considerazione sulla vocazione culturale e musicale di Arezzo facendo qualche incursione negli studi di storici del calibro di Alberto Fatucchi, Robert Black e Jean Pierre Delumeau.

Determinante è stata la posizione della città che ha sempre favorito gli scambi commerciali e culturali in genere ed è stata per contro nefasta per gli scontri militari. Le ha tuttavia consentito di godere di una grande importanza politica, strategica ed economica anche per lunghi periodi, in particolare fra il III e il I secolo a.C. e fra l’XI e il XIV secolo dell’era nostra: tanto è vero che è stata per tre secoli base delle legioni romane in coppia con Rimini (era in grado di ospitarne contemporaneamente quattro) ed non ha subito per decenni alcun danno in seguito alla sconfitta di Campaldino.

Si sa che a partire dal Duecento si sviluppò nella Mitteleuropa quella temperie culturale che Charles H. Haskins ha definito appunto “Rinascimento del XII secolo”: in quest’ambito Arezzo non rimase certo indietro se è vero, come è vero, che disponeva di una fiorente università quando ce n’erano appena una ventina in tutta Europa, di cui almeno dieci solo in Italia!

La classe dirigente aretina era pienamente consapevole della “gloria concessa al genio degli Aretini da Dio immortale e dalla natura stessa”, come si legge in una dichiarazione del 1486: ancora Michelangelo, come è noto, dichiara in una lettera al Vasari che se aveva mai alcun merito, ciò era dovuto alla sottilissima aria di Arezzo!

Privati della libertà all’indomani della vendita della città a Firenze, gli Aretini ripiegarono sugli studi, con una scelta di campo che veniva da lontano e che si rivelò però sostanzialmente perdente: invece di valorizzare, come avvenne a Firenze, accanto alle lettere, alla grammatica e al latino (en passant: Firenze si avvalse per la propria componente umanistica delle migliori teste di Toscana, con in testa le migliori di Arezzo: Accolti, Bruni, Marsuppini, Poggio, Tortelli!) quello studio scientifico che i “calculatores” di Padova e di Oxford avevano iniziato fin dalla seconda metà del XIII secolo (e che lo stesso Dante nella sua gioventù non aveva tenuto nella giusta considerazione), puntarono con orgogliosa e puntigliosa ostinazione sulla grammatica, sulla retorica e sul latino (ma non mancava neppure il greco: fra gli altri maestri fu ingaggiato perfino un greco, come si direbbe oggi, madrelingua), facendone il fondamento della cultura e dell’ istruzione: “Senza e’ fondamenti di grammatica -proclamavano- nessuna altra scientia si può conseguire”.

Val la pena di sottolineare come, neanche un secolo dopo, in ben altro contesto culturale, un Galileo affermerà esattamente il contrario: “Senza conoscenza di matematica nulla opera umana può prendere il volo!”.

Ogni città, come ogni uomo, ha il suo carattere e il suo destino: Arezzo insisteva in quell’esigenza della lealtà, dell’etica e dell’onore che in un certo senso aveva avuto il suo peso determinante nel causare la sconfitta di Campaldino, con il sostanziale rifiuto -per dirne una- della balestra, arma maledetta e scomunicata.

La decadenza di Arezzo nel XVI secolo deriva dalla mancanza di libertà politica e dalla invano più volte combattuta sottomissione alla rapacità e al sopruso elevati a sistema. La classe dirigente aretina avvertiva, dopo il fallimento delle due ribellioni del 1502 e del 1527, l’impossibilità di sottrarsi al dominio fiorentino, ed è un dato ormai comunemente accolto dagli storici che le fazioni operanti in Arezzo non erano tanto divise in filofiorentini e antifiorentini, quanto in filomedicei e filorepubblicani.

Ma la cosa curiosa è che la crisi investì tutte le branche della vita culturale, politica e civile, eccezion fatta un poco per l’arte e in pieno per la musica che invece conobbe la sua epoca d’oro, specialmente con la formidabile staffetta di due musicisti che hanno lasciato il segno: Paolo Antonio del Bivi, detto Paolo Aretino e Orazio Tigrini.

Il primo (nato il 1° marzo 1508) lavora ad Arezzo con alterne vicende (patisce anche un licenziamento da parte del Capitolo, dovuto alla tristezza dei tempi: peste, inondazioni, terremoto e siccità), si appoggia a Firenze e a Venezia e, imbevuto di spirito rappresentativo fiorentino, scrive la famosa “Passione secondo Giovanni” rompendo con la tradizione contrappuntistica fiamminga per approdare ad una forza espressiva che è tipica di chi conosce il teatro!

Intuisce il talento del giovane Orazio e ne fa il suo allievo prediletto. Questi grazie ad una sterminata erudizione musicale scrive nel 1582 quel “Compendio della Musica” che avrà una seconda edizione postuma nel 1602 e rimarrà per almeno due secoli manuale di riferimento per la teoria musicale in tutta Europa, tanto è vero che il grande teorico e compositore inglese Thomas Morley ne copia spudoratamente parecchie pagine senza curarsi di citare la fonte.