Procuratore a rischio, la giustizia si mobilita: "Magistrato ineccepibile"

Ecco la memoria di Rossi al Csm. I magistrati: sgomenti. Rabbia Pm. Avvocati mobilitati. In campo anche il personale della procura: siamo con lui

Roberto Rossi

Roberto Rossi

Arezzo, 22 ottobre 2019 - C’è una città intera, anzi una cittadella, quella della giustizia, che si ribella allo scenario che da mercoledì Roberto Rossi possa non essere più il procuratore capo di Arezzo. Tanto più con le motivazioni della relazione di maggioranza, stesa da Pier Camillo Davigo, ex mente giuridica del pool di Mani Pulite a Milano e ora capo di una corrente di magistrati, per il plenum del Csm di domani.

Che cioè Rossi sia venuto meno ai requisiti di indipendenza e di immagine «per impropri condizionamenti», per aver insomma avviato le indagini su Banca Etruria nel periodo in cui era ancora consulente del dipartimento affari legislativi di Palazzo Chigi, premier Renzi, che aveva per ministro Maria Elena Boschi, figlia di uno degli ultimi due vicepresidenti di Bpel, Pierluigi Boschi.

E’ un ritratto del capo dei Pm aretini nel quale non si riconosce nessuno, non i colleghi, dai sostituti della procura ai giudici del tribunale civile e penale, non il personale della procura, che ieri mattina si è riunito in assemblea e ha votato un documento di solidarietà, e nemmeno gli avvocati, che pure di Rossi sono gli avversari naturali in tribunale. E’ sconcertato, dunque, Stefano Del Corto, presidente della Camera Penale, che riunisce i legali impegnati nel settore penale, pensa a una presa di posizione pubblica l’ordine degli avvocati.

«Speriamo vivamente che Rossi resti al suo posto, è un magistrato ineccepibile», sintetizza il presidente Roberto De Fraja. Scende in campo anche l’ex presidente Piero Melani Graverini: il migliore dei procuratori possibili. Quanto ai magistrati, nessuno parla ufficialmente, per non turbare la scelta del Csm, è la giustificazione. Ma fonti ufficiose di Palazzo di giustizia esprimono sgomento dinanzi al rischio che Rossi perda l’incarico e ancor di più dinanzi alle motivazioni «pretestuose».

Al terzo piano della procura, l’attività è quella di un giorno normale, ma il disappunto si legge chiaro in faccia ai Pm, così come nei volti scuri degli uomini della polizia giudiziaria che col procuratore hanno condiviso anni e anni di indagini, non solo Etruria, ma anche il giallo di Martina, il sequestro della E45, la bancarotta Eutelia e ancor più indietro Variantopoli, che decapitò un’amministrazione comunale.

L’ufficio di Roberto Rossi, in fondo al corridoio, è vuoto. Lui è a Roma, a consegnare al Csm la memoria con la quale si difende e controbatte l’impianto accusatorio di Davigo, definito come un «clamoroso e sconcertante travisamento dei fatti». Le otto pagine del memoriale ripercorrono le date, che sono decisive per ricostruire storicamente i fatti. L’incarico al Dagl cessa definitivamente il 31 dicembre 2015, dopo che il caso era esploso qualche giorno prima, sempre in dicembre.

Che avrebbe dovuto fare Rossi, domanda nella relazione di minoranza Marco Mancinetti, dimettersi per soli dieci giorni? Il fallimento di Bpel, spiega invece il memoriale Rossi, è dell’11 febbraio 2016, un mese e dieci giorni dopo, le prime iscrizioni nel registro degli indagati per bancarotta sono della fine di febbraio. «Questo procedimento ha visto il signor Pierluigi Boschi non “potenzialmente coinvolto“ (come scrive Davigo Ndr) ma indagato a tutti gli effetti».

Quanto agli unici fascicoli aperti all 31 dicembre 2015, essi riguardavano l’ostacolo alla vigilanza imputato a Fornasari, Bronchi e Canestri e un’indagine per conflitto di interessi (originata dalla relazione dell’ispettore di Bankitalia Giordano Di Veglia) sulll’ultimo presidente Lorenzo Rosi e di Luciano Nataloni. Boschi non c’entrava.

Durissimo Rossi col diniego alla conferma espresso dal ministro della giustizia Alfonso Bonafede, motivato sempre dal caso Boschi: «Gravissimo e clamoroso sviamento di potere». Il ministro può esprimersi solo sull’organizzazione il resto è una «gravissima forma di ingerenza del potere politico sulla giurisdizione»