Morto sul Cervino, Matteo portato a spalla dall'amico alpinista: mille all'addio in Duomo

"Per noi resterà giovane e bello": l'appello di don Alvaro all'omelia. "Aiutiamolo a riafferrare la corda perduta ma stavolta per salire in cielo". Folla ed emozione

Il funerale di Matteo

Il funerale di Matteo

Arezzo, 24 agosto 2018 - Se lo è caricato sulle spalle, insieme ai tanti amici arrivati lì a dirgli addio. Se lo è caricato sulle spalle come avrebbe voluto fare sul Cervino, quando lo ha visto stanco, se solo la montagna consentisse oltre al possibile anche l’impossibile. L’amico scalatore, il compagno di tante avventure, guidava il gruppo che ha aspettato Matteo Pes in Cattedrale e poi lo ha accompagnato fuori della chiesa. Uno tra i mille accorsi per i funerali.

I funerali del silenzio, lo stesso silenzio che aveva regnato per ore nella camera ardente. Il silenzio delle grandi montagne e insieme del dolore. «Il dolore è il nostro maestro» ripete più da padre che da semplice sacerdote don Alvaro Bardelli. Parla al babbo, parla alla mamma, parla al fratello; ma parla soprattutto dando loro del tu alle centinaia di ragazzi che affollano la navata. «Che senso ha morire a 28 anni?».

Dà voce, lui che è l’unico autorizzato a spezzare il silenzio, alla domanda di tutti. E un po’ da padre e un po’ da sacerdote non impone risposte, anzi per primo confessa di non averne. Anche se poi suggerisce quelle della fede. «So solo che lo ricorderemo per sempre bello e giovane». Un attimo, poi ripete. «Per sempre bello e giovane». Come nel portafotografie, due sue immagini, appoggiato con delicatezza sul feretro e che il babbo riprende alla fine, con la stessa delicatezza, questa sì solo ed esclusivamente da padre.

Un padre che si sente raccontare in chiesa quello che sa già. «Era un ragazzo entusiasta, con tante passioni: ma anche un cuore grande». Don Alvaro ricorda il suo impegno per la Misericordia, le cui casacche colorano il Duomo. Il bianco, del feretro e delle mille rose per Matteo, è il colore dominante.

«Non voleva scoprire solo la montagna, amava cercare anche se stesso». «Aiutiamolo a riafferrare la corda perduta: ma stavolta per salire a Dio». E’ l’immagine a effetto che sceglie don Alvaro per sfiorare la tragedia. Il grosso dei giovani resta in piedi. Ci sarebbero degli ultimi posti a sedere in fondo, ma si stringono tutti insieme, come per non allontanarsi troppo dall’amico, come per darsi forza l’uno con l’altro.

E restano così anche al termine del rito. Un momento incredibile, nel quale tutto si ferma, compresa la musica. Al centro i familiari più cari, si stringono intorno a quella bara, avvolta da una bandiera tricolore, in un abbraccio che sembra di colpo portare Matteo lontano, in una dimensione intima quasi più protetta delle cime che amava o del silenzio dei monti. Gli altri tutti fuori, sospesi, in punta di piedi: c’è perfino chi trattiene il fiato e non solo per non scoppiare a piangere.

Una a una le mille corone che circondano la cassa bianca vengono portate via (tra cui quella dei tifosi, di Porta del Foro, di tante realtà nelle quali Matteo trovava chissà come il tempo di lasciare il segno). Finché resta solo l’abbraccio, solo l’intimità profonda di un affetto strappato dalla morte ma in realtà ancora vivissimo. Un silenzio rotto solo dall’applauso, che parte dalla navata e prosegue fuori.

Ad una vita, ad un amico perduto, a quello che doveva essere e non è stato. Gli amici lo posano delicatamente sul carro funebre. Poi si stringono l’uno all’altro: abbracci, baci leggeri, la stretta delle mani. «Eccomi» era stato il canto iniziale, proprio all’ingresso di Matteo in Cattedrale. E pareva quasi di vederlo, leggero come in tante foto, guadagnare la cima di una delle sue montagne.