"Mio padre debole come se fosse il nonno"

Il biturgense che da figlio accudito si ritrova ad assistere il genitore. Col rimpianto struggente infine di una perdita incolmabile

di Silvia Bardi

La memoria è freschissima, così come il dolore per la perdita del padre che lui affettuosamente chiama “il nonno”. Come succede nella vita, arriva il momento, per un figlio di accudire il genitore, di accompagnarlo nell’ultimo periodo della sua vita. E quelle giornate passate insieme “a casa del nonno” diventano un dono, e quel dono si trasforma in parole e in pagine scritte tra memoria e presente. Il dono di ritrovare il piacere di scrivere un diario, proprio come si faceva da bambini.

Gervasio Innocenti, è di Sansepolcro, ha 69 anni, e dal 2015 al 2020 ci porta nel suo mondo privato, nella casa di suo padre. E inanella i ricordi. Ci sono i sogni, i ricordi, i viaggi, la caccia, la scuola, le donne, il lavoro, la campagna, i topi, gli amici, i lutti, l’Isola del Giglio. Un mosaico di vita che trova il suo compimento nelle parole del padre che Gervasio raccoglie mentre lo accompagna nelle piccole e grandi mansioni domestiche dal mangiare all’andare in bagno o sul balcone, fino alla fine. “Come si comincia a scrivere? - si chiede - non lo so ma penso ci si possa muovere in ogni direzione, anche stando fermi qui, seduti sul divano. Non c’è bisogno di grande ispirazione. C’è mio padre (il Nonno) sulla sua poltrona elettrica che gli alza e gli abbassa le gambe, il busto, la testa. La testa ce l’ha ancora buona, nonostante i suoi novantadue anni. Sto scrivendo a ruota libera, come la ventola del ventilatore che ci manda un po’ di refrigerio. Mio padre dorme. Guardo le foto in bella vista appoggiate sopra il mobile”.

Inizia così il suo diario che ci parla di sé, delle fughe dalla scuola, dei viaggi adolescenziali in pullmino attraverso i Balcani, fino al lavoro di impiegato in banca nell’età adulta, il matrimonio, la nascita di tre figli. Gervasio scrive, assiste e ama il padre, finché quel viaggio si interrompe: “28 aprile 2016. Il venticinque aprile non abbiamo festeggiato il compleanno del nonno. Avrebbe compiuto novantatré anni ma non c’è arrivato. È morto il sei. Sono passati ventidue giorni. Sono qui a scrivere, sul divano, ma non sul divano di fianco a lui, alla sua poltrona. Sono sul divano di casa mia, con la luce del sole che entra dalla finestra ad ovest. Non mi capacito, dire che sono triste è poco. È una sensazione di abbandono. Ora davvero mi mancano i genitori. Quando cammino appoggio i piedi nel vuoto. Mi sembra di non aver più niente da fare e una punta di rimorso in fondo all’anima mi attanaglia la gola. È un percorso difficile e obbligato, ad ogni età, per ciascun figlio che perda un genitore al quale è affezionato. Ci sono perdite di riferimenti che non è facile accettare”.

Ma Gervasio continuerà a scrivere come a mantenere vivo quel legame speciale e indissolubile, come quando sedeva a fianco di suo padre e colmava quelle ore passate insieme con le parole, con i pensieri, con i ricordi e con un rituale ascolto: “Lunedì 9102017 ore 11, sono qui, a casa del nonno. Sono seduto su una seggiola di cucina: di là, in salotto dove lui stava sempre nella sua poltrona, non c’è rimasto nulla, la stanza è vuota. Fra poco l’appartamento sarà abitato da un’altra famiglia. Resto qui e mi fingo di esser di là, quando i miei genitori, seppur nella malattia erano vivi, quando ancora il nonno raccontava le sue storie”