La vita ai tempi del colera che ora si chiama Covid

Venti brani selezionati sulle epidemie del presente e del passato. Paura dramma e ironia, con lo smart working che diventa "Smatt working"

di Salvatore Mannino

L’amore (e la vita) ai tempi del colera chiamato Covid. E anche delle epidemie che l’hanno preceduto o delle guerre che rappresentano l’altra grande falcidia dell’umanità. E’ il filo conduttore lungo il quale si muovono quest’anno i brani selezionati al premio Pieve e raccolti sotto il titolo di "Come pagine bianche", il tema di un’edizione che è la numero 36 di un evento che è sicuramente il più singolare della stagione letteraria di questo paese.

Sono venti i frammenti, alcuni recentissimii che gli organizzatori hanno pazientemente collazionato fino a restituire un quadro dell’Italia del contagio. O dei contagi, a guardare anche a quelli del passato. "Vivere i giorni di un avvenimento epocale - è la sfida che parte dai Diari - rende subito percettibili anche le mutazioni di lungo periodo. Quello che fino a ieri aveva un significato, oggi ci appare diverso. Oppure no?".

La prima risposta arriva da Mario Tutino: "Ancora pochi giorni fa la vita, attorno a noi, sembrava un deserto. Profondo senso di rinascita; con la freschezza e la luce (che sono anche nell’aria delle cose belle in germoglio". La resurrezione dopo la paura, ma ahinoi non sempre la realtà è così promettente.

Basti rileggere il brano di Filippina Mincio, che narra un’epidemia del passato con toni quasi manzoniani o alla Camus della "Peste": "Allo scoppiare dell’epidemia, erano stati distribuiti alle famiglie dei medicinali e una grande quantità di limoni. Ognuno si curava da sé. Nessuno usciva di casa, neanche i medici, che d’altronde non sarebbero stati in numero sufficiente al fabbisogno...tutto si dimostrava inutile. Morivano centinaia di persone al giorno. Il Comune aveva noleggiato carri trainati da buoi, con personale che trasportava rustiche casse da morto, prelevava i cadaveri e si occupava del seppellimento".

Altrettanto disperante è il frammento di Ubaldo Baldinotti su un altro "terribile morbo" che pare la Spagnola: "Non passava giorno che nel paese dove ero io, non ci fossero due o tre morti colpiti da questo terribile morbo, dalla linea ferroviaria che era a poca distanza da dove ero io, tutti i giorni transitavano treni ospedali carichi di feriti, e non essendo questi più bastanti, passavano treni merci con vagoni pieni di barelle, su cui c’erano sopra soldati feriti".

Non a caso anche le cronache del lockdown sono a volte cupe. come quella di Chiara Alderighi che racconta di una fila per fare la spesa, con la lista in mano, e dell’attesa di un’amica come quella di "due pistoleri in un film di Sergio Leone, il carrello per cavallo e per bandana questa scomoda mascherina chirurgica, tanto più che un sole spudorato mi regala la stessa espressione e la stessa sete di Clint Eastwood".

Però vince su tutto e tutti la voglia di sopravvivenza che a suo modo rappresenta Antonio Sbirziola, emigrante siciliano degli anni ’50 il cui diario è stato pubblicato nel 2012: "Io o avuto la forza di sorvivere in questo monto. La vita e bella di viverla e godersela, che la piu bella cosa che abiamo".

Ecco dunque che anche in tempo di virus nascono nuovi modi di organizzazione sociale come lo smart working, che Linda Lotti racconta a suo modo, con ironia: "Non hai ordinato le foto degli ultimi tre anni. Non hai finito il cambio dell’armadio. Non hai fatto le pulizie di primavera e neppure hai mai fatto ginnastica. Non hai fatto la pizza in casa (ma la focaccia sì). Non hai letto neppure un libro. Non hai scritto neppure una pagina. Non hai pianto. Hai speso l’80% del tuo tempo a lavorare. Smart working, lo chiamano. Forse volevano chiamarlo Smatt Working". Con una fantasia così, non ci fermerà neanche il Covid.