Il dramma di Bacis: la bara di mio zio su uno di quei camion dell'esercito

La testimoinanza dell'ex giocatore e allenatore dell'Arezzo originario di Bergamo

Michele Bacis

Michele Bacis

Arezzo 22 marzo 2020 -  «Avete visto tutti l’immagine di quei camion dell’esercito che lasciavano Bergamo con a bordo le salme di chi è morto anche a causa del Coronavirus. Tra le bare c’era quella di mio zio». A parlare è Michele Bacis. L’ex giocatore e allenatore dell’Arezzo, originario di Bergamo è in costante contatto con i parenti. La sua non è solo una testimonianza di cosa sta accadendo in Lombardia, ma anche un appello. «Ho letto e sentito cose tra le più assurde sul Coronavirus - spiega Bacis - la realtà è un’altra». L’esercito in strada, le ambulanze che vanno e vengono a sirene spiegate e poi quei camion che viaggiano di notte per trasferire le bare. «Forse per evitare di farsi vedere viaggiano di notte, ma le notizie corrono» prosegue Bacis, la cui famiglia è stata colpita dal Covid-19. «Mio zio aveva 68 anni - racconta l’ex difensore di Triestina, Fiorentina e Genoa - un’ambulanza è venuta a prenderlo a casa e non è più tornato. Mia zia ha ricevuto una telefonata nella quale le hanno comunicato il decesso e che non avrebbe potuto vederlo. I vestiti che indossava sono stati bruciati. Le bare ormai riempiono le chiese e chissà quanti altri locali. Qui vengono sistemate prima del trasferimento ai forni crematori». Non solo persone anziani, ma anche giovani. Il Coronavirus non fa distinzioni. «Mio zio aveva anche difficoltà respiratorie, era un fumatore, ma mio cugino no - prosegue Bacis - ha 48 anni, non ha vizi, eppure il virus lo ha debilitato. Lunedì scorso ha lavorato regolarmente indossando anche la mascherina, ma non era di quelle chirurgiche. Quelle servono in ospedale e non è facile trovarle. Il giorno dopo non riusciva nemmeno ad alzarsi da letto. Per tre giorni ha avuto febbre alta che adesso è passata, ma non mangia e fa fatica anche a parlare».  Gli ospedali sono ormai saturi. «E’ un’epidemia violenta, che si diffonde velocemente - aggiunge Bacis - amici mi raccontano che non c’è la certezza di trovare posto se uno si ammala. C’è il rischio di morire a casa, nonostante le strutture presenti in città che, oltre ad essere enormi e moderne sono all’avanguardia. Anche mio padre si è ammalato, ma non sappiamo se era Coronavirus. Ha 76 anni e non gli è stato fatto il tampone. Ha perso sette chili e quando mangia non sente più il sapore del cibo, nemmeno gli odori. Ho dovuto chiamare alcuni medici di Arezzo chiedendo consigli per i miei parenti perchè è diventato difficile anche contattare i dottori. E per fortuna gli alpini si sono messi a disposizione e stanno dando un contributo importante».  Una situazione pesante quella raccontata da Bacis che lancia un appello a tutti gli aretini. «La gente deve capire che l’unica soluzione è stare a casa. E’ la cosa più importante adesso: dobbiamo rispettare le norme. I ragazzi vogliono uscire? Adolescenti o adulti potrebbero essere asintomatici, e così contagiare i propri nonni o genitori. La cosa che mi ha dato più fastidio è stata quella di sentir parlare certi giornalisti che hanno descritto scenari irreali. Il problema è che in Italia siamo 60 milioni di allenatori e oggi diventiamo 60 milioni di medici. Chi non ha vissuto sulla propria pelle certe cose non si può rendere conto. Stiamo a casa, è l’unica soluzione«.