"Ho fatto la terza dose anche se ho avuto il virus"

Luca Pancioni infermiere si ammalò insieme alla moglie Luisa "Voglio stare tranquillo per la mia famiglia e per le persone che aiuto"

Migration

di Lucia Bigozzi

"Sono corso subito a farmi la terza dose, anche se non è obbligatorio ma voglio proteggere chi mi sta intorno". L’altro ieri Luca Pancioni, 49 anni è uscito dall’hub vaccinale con il cerotto al braccio: lui che il Covid lo ha preso, tra i primi sanitari aretini colpiti nell’ondata pesante, quella che a Bergamo ha messo le bare sui camion militari incolonnati per strada e ha dato all’Italia l’immagine tangibile della morte.

E’ la sua risposta ai no pass, no vax e a quella fetta di aretini ancora incerti o non del tutto convinti sull’immunizzazione: "Nonostante avessi superato la malattia, ho fatto la prima e la seconda dose e ora per la terza, non c’ho pensato due volte. Voglio stare tranquillo nei confronti della mia famiglia e verso le persone che aiuto".

Luca è infermiere dal 1998, tra gli "anziani" del 118, la Centrale dell’emergenza che opera sul territorio. E’ uno di quelli che sta nella prima linea d’intervento, quando bastano pochi istanti e serve una bella scorta di competenza per salvare una vita o perderla. Una professione che per Luca Pancioni "è qualcosa di più, è passione e scelta di vita perché ho voluto essere infermiere, non semplicemente fare questo mestiere, stando nell’emergenza perché mi piace sentirmi utile agli altri".

Turni in Centrale e sulle ambulanze sono la quotidianità alla quale somma l’incarico in Azienda sanitaria: Disaster manager per la provincia di Arezzo. E’ l’uomo dei piani di sicurezza per i grandi eventi (la Giostra del Saracino, solo per fare un esempio) o le gravi calamità che colpiscono la popolazione: organizzare e pianificare la protezione di una comunità.

Luca si è fermato solo per il Covid: era in prima linea nel terremoto di Amatrice e il naufragio della Concordia all’Isola del Giglio dove è tornato con una tenda di decontaminazione chimica, in dotazione al gruppo aretino delle maxi-emergenze, quando si è trattato di rimettere "in piedi" il gigante ferito a morte dallo sbaglio dell’uomo.

Il 19 marzo 2020 è una data che non dimentica, insieme alla moglie Luisa, anche lei infermiera e ai figli di 18 e 13 anni. "Ho contratto l’infezione al lavoro, come tanti tra il personale sanitario nella prima ondata, nonostante facessimo screening ogni tre giorni. Il rischio di contagio era alto così come l’esposizione sul territorio". Il tampone positivo fa scattare la procedura: Luca ha tosse, stanchezza fisica, dolori "e ancora oggi il Covid mi ha lasciato segni nei polmoni".

Luisa accusa sintomi più seri e il monitoraggio sui livelli di ossigeno nel sangue a un certo punto impone il ricovero in ospedale: "E’ stata venti giorni in Malattie infettive, dieci dei quali con il casco. Io a casa pensavo ai figli, anche loro positivi. E’ stata dura: con mia moglie ci scambiavamo qualche messaggio e abbiamo passato momenti di preoccupazione. La decisione del ricovero è stata la svolta, perché ci siamo salvati dalla Rianimazione".

Pausa, Luca respira. Ogni volta è come riviverla quell’esperienza e seppure sia passato più di un anno, con Lusia evitano di tornare indietro nei ricordi, perché il Covid lascia cicatrici anche a livello psicologico "che non si cancellano. La malattia è devastante, ti cambia dentro, trasforma il modo di affrontare la vita e le priorità. Il tempo che trascorro con la famiglia oggi ha un valore diverso".

Nei cinquanta giorni chiuso in casa Luca ha ricevuto l’aiuto "dei vicini di casa che ci hanno assistito preparando da mangiare, facendo la spesa per noi; persone splendide alle quali siamo grati".