Giusini, grande amore aretino di D’Annunzio

Lei era la contessa Giuseppina Mancini, parte della passione si snodò nella villa di famiglia a Petrognano, alla spalle del marito "Testone"

Salvatore

Mannino

Nell’inverno 1922, quasi cent’anni fa, nel mentre il fascismo prepara il proprio avvento al potere e lo stato liberale agonizza sempre più impotente, con la provincia di Arezzo ormai quasi "pacificata" dalla marea nera dell’offensiva squadristica che fa le prove del Regime totalitario, un clamoroso caso di cronaca domina le cronache locali dei giornali, a cominciare da La Nazione. Il conte Lorenzo Mancini muore nella sua maestosa villa dei Palazzetti a Patrognano, poco lontano da Giovi, dopo un’iniezione della sua infermiera-amante ungherese, per giorni si sospetta il delitto. Perchè lei è l’erede designata del patrimonio, compresa la villa, nella quale si è stabilito una sorta di menage a trois, al quale partecipa anche un altro straniero che è a sua volta l’amico molto particolare della donna. Finirà tutto archiviato nel giro di pochi mesi, ma l’amante non erediterà mai: lo vieta ai non cittadini la legge italiana dell’epoca, la straordinaria dimora dei Palazzetti verrà incamerata dall’erario e solo nel 1926 riuscirà a tornarne in possesso la moglie del conte, Giuseppina Mancini, che ne manterrà la proprietà fino al 1961, anno della morte. C’è ancora qualche anziano contadino che la ricorda anziana, appassita e dedita alle opere religiose come alla beneficenza.

Sarebbe una pagina ingiallita dal tempo, se lei non fosse stata Giusini, o Amaranta, uno dei grandi amori di Gabriele D’Annunzio, che certo nella sua vita da Vate tre cose non se le fece mancare mai: le donne, i debiti e le avventure superomistiche, comprese le imprese della Grande Guerra come il Volo su Vienna e la Beffa di Buccari o quelle del dopoguerra, quale la spedizione di Fiume, dalla quale il poeta era uscito nel "Natale di sangue" del 1920, sfrattato dai cannoni della Regia Marina che avevano sparato per ordine dell’odiato presidente del consiglio Giolitti, il disprezzato "Boia labbrone". Ma tutto questo è grande storia, a noi stavolta interessa la storia minore di una passione, che poi tanto minore non è, visto che la contessa Mancini è davvero una delle presenze cardine nella vita di D’Annunzio, insieme ad Alessandra Di Rudinì, a sua volta figlia di un presidente del consiglio, Eleonora Duse e poche altre. Tante avventure femminili, fin quasi alla fine del 1938, ma quelle che contano davvero si enumerano sulle dita di una mano sola. Compresa la dolce Giuseppina, cui il Vate dedicò un diario, "Solus ad solam", scritto nel 1908 ma pubblicato postumo nel 1939.

Quando i due si conoscono, a Roma nel 1906, lei, di estrazione borghese (ma i soldi del padre compensano i quarti di nobiltà mancanti), trentenne, è già la moglie del conte Lorenzo, beone e donnaiolo, al punto di essere contagiato da una brutta malattia venerea. D’Annunzio resta fulminato e comincia uno dei suoi corteggiamenti spietati. La segue a Milano, l’assedia a Firenze, dove nel palazzo del marito c’è sempre una carrozza pronta per lei, ovviamente pagata dal poeta. Finalmente Giuseppina cede, in una turbinosa notte d’amore consumata nella villa della Capponcina da cui il Vate dovrà poi scappare per sfuggire ai debitori. E’ l’11 febbraio 1907, data che resterà indimenticabile per entrambi.

E’ una di quelle passioni cui possono abbandonarsi solo letterati decadenti come lui e nobildonne religiose come lei, assediata dai sensi di colpa. D’Annunzio scrive solo lettere d’amore, dimenticando poesie, drammi e romanzi che pure gli servono per pagare i debiti. Un epistolario che andrà perduto negli anni ’60 e verrà recuperato solo nel 2010, dentro il caveau di una banca svizzera. Viene l’estate e Giuseppina si trasferisce col marito nella dimora della villeggiatura estiva, ai Palazzetti di Petrognano appunto, costruita dai Barbolani di Montauto ma proprietà dei Mancini da fine ’700. Il poeta la segue, ospite del marito, che lui spregiativamente chiama "Testone" e che forse non sa o forse fa finta di non sapere. D’Annunzio lo beffa sanguinosamente, arrampicandosi fino in camera di lei. La leggenda vuole che arrivi alla stazione in treno e poi entri in villa dal retro, scalando la scoscesa scogliera che dà sull’Arno.

Non avrei mai immaginato, le scrive lui, che quando salivo in Casentino sfioravo la tua casa. Perchè D’Annunzio conosce già bene Arezzo, cui ha dedicato una delle sue odi alla Città del Silenzio, e anche il castello di Romena, dove, complice l’ospitalità dei Conti Goretti, ha trascorso nel 1902 una sorta di luna di miele (tradendola) con la Duse e ha scritto parte dell’Alcyone.

Verrà poi un’altra estate e un’altra villeggiatura ai Palazzetti, ma ormai l’amore volge al termine. Perchè il padre di lei intima la fine della relazione, perchè il conte ormai ostenta di sapere ma soprattutto perchè lei è divorata dagli scrupoli religiosi, fino a impazzire. In quello stesso 1908 il marito la fa internare in manicomio e avvia le pratiche di separazione. Per inseguire la sua nuova fiamma, l’infermiera, arriverà a prendere la cittadinanza austro-ungarica, che poi diventa un paese nemico. Lei guarirà nel 1911 ma ormai la passione è spenta. Si scriveranno fino alla morte del Vate, però non si vedranno più.