FILIPPO BONI
Cronaca

"Fuoco": ma si getta nel burrone e si salva L’addio ad Aldo, ultimo superstite della strage

Così Dini era scampato a Cavriglia ai nazisti: già al muro, vede una mano invitarlo, corre in una casa, si lancia dal balcone. Si è spento a 96 anni

"Fuoco": ma si getta nel burrone e si salva L’addio ad Aldo, ultimo superstite della strage

Filippo Boni

Pioviggina sul selciato del camposanto di Castelnuovo, c’è un marzo pallido che mescola il ghiaccio allo scirocco e ai fiori di mandorlo. Tira vento, le punte verdi dei grandi cipressi ondeggiano quasi a volersi inchinare nella bruma del mattino. Qualcuno, sembra la calligrafia di un bambino, ma non v’è certezza, ha lasciato un biglietto un po’ accartocciato vicino al sepolcro di Aldo Dini. “Beati i miti, perché erediteranno la terra. Addio Aldo, grazie per il tuo esempio”.

Sono trascorsi due giorni dai funerali di quest’uomo mite e discreto che si è spento il 7 marzo all’ospedale della Gruccia dopo una brutta bronchite all’età di 96 anni. Dini era l’ultimo sopravvissuto del massacro nazifascista del Comune di Cavriglia, avvenuto tra il 4 e l’11 luglio 1944 durante il secondo conflitto mondiale, che con 192 vittime totali è il quarto più grande sterminio mai avvenuto su scala comunale in Italia in quel periodo dopo Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema e Le Fosse Aredatine. Era l’ultimo uomo in vita, fino a pochissimi giorni fa, ad avere visto lo sguardo di ghiaccio di Wolf, nomen omen, comandante dell’Unità nazista Alarmkompanie Hermann Goering della Wehrmacht, che all’alba di quel drammatico giorno guidò i suoi uomini fino all’acropoli del paese di minatori di Castelnuovo dei Sabbioni, per trucidare i civili maschi dell’abitato.

Erano oltre mille i soldati tedeschi attivi in quel territorio quella mattina; partirono alle 5 circa dal villaggio di Santa Barbara e si mossero con manovra a tenaglia prima verso i paesi di Meleto e di Castelnuovo, poi verso Massa Sabbioni e San Martino, con un unico intento: uccidere i civili maschi. Al tramonto la mattanza contava 93 vittime a Meleto, 74 a Castelnuovo, 2 a Massa e 4 a San Martino. Nella settimana successiva però il terrore proseguì e con l’eccidio dell’8 luglio a Secciano e dell’11 luglio nel quartiere de Le Matole, il conto dei morti arrivò a 192. Aldo aveva solo 17 anni, aveva trascorso la notte in un rifugio a ridosso dell’antica rocca di Castelnuovo, e si rese conto che i nazisti erano sopraggiunti in gran numero e rastrellavano casa per casa tutta la frazione.

Restò nel nascondiglio per almeno un’ora, ma poi, certo che i soldati stessero solo effettuando dei meri controlli dei documenti, si recò in Piazza IV Novembre, sotto la roccia che sostiene la chiesa, insieme a tutti gli altri. Quando sopraggiunse, si rese conto che la situazione era di forte tensione e che gli uomini in divisa non avevano certo buone intenzioni. Una mitragliatrice era posta a circa trenta metri dal muro e i civili erano stati fatti ammassare tutti vicini.

Gli fecero cenno di unirsi agli altri e a quel punto capì che non ci sarebbe stato più scampo. I tedeschi volevano uccidere tutti. Il parroco, Don Ferrante Bagiardi, rastrellato con i parrocchiani, implorò ripetutamente Wolf di uccidere lui e di liberare gli uomini, ma il comandante dagli occhi di ghiaccio non ebbe pietà. Fece disporre i rastrellati lungo il muro, li fece inginocchiare mentre Don Ferrante impartiva l’assoluzione e dava la comunione a tutti.

Aldo si avvicinò al parroco e lo implorò. "Priore mi salvi, non voglio morire, ho solo 17 anni". "Non preoccuparti figlio mio – gli aveva risposto il prete -, tra poco saremo tutti insieme tra le braccia del Padre". “Fuoco!”, urlò Wolf. Mentre l’ordine dava il via alla mitraglia, Aldo vide una mano spuntare dal portone dell’abitazione vicina al muro che gli fece cenno di avvicinarsi.

Corse a perdifiato verso quella porta socchiusa, le pallottole lo sfiorarono ma non lo trafissero. Spalancò un’anta e attraversò il corridoio senza rendersi conto che dietro di lui c’era un uomo che aveva trovato rifugio dietro al portone, Pietro Galante, detto il Genovese. Entrò nella terrazza dietro a quella casa e si gettò nel burrone sottostante tra rovi e sterpaglie. I tedeschi lo inseguirono sparandogli alle spalle ma le pallottole, fischiandogli vicino alle orecchie, non lo colpirono.

Rotolò fino al greto del torrente Pianale e poi, ferito, si spogliò, attraversò a nuoto la diga che si trovava nei pressi e si mise in salvo. Quell’attimo fu lo spartiacque della sua esistenza. Una manciata di secondi che nei decenni successivi ha trasformato in una testimonianza preziosissima da trasmettere ai giovani e che ha narrato senza stancarsi a centinaia di studenti.

Aldo è cresciuto, è divenuto un uomo, ha lavorato, si è sposato con la sua Giampiera, ha visto crescere figli e nipoti. A San Cipriano, dove era andato a vivere, era divenuto l’organista della parrocchia, adorato da tutti per la sua tenerezza, per la sua pacatezza, per la sua bontà. Il terrore di quel giorno lo aveva trasformato in amore per il prossimo; la coltivazione della memoria in una forma di giustizia riparativa per un popolo ferito.

È stato uno dei più grandi operatori di pace della storia di Cavriglia Aldo Dini, forse senza neppure averne contezza. E forse è per questo che le punte di quei cipressi nella bruma del camposanto, stamani s’inchinano di fronte a quest’uomo umile tornato “tra le braccia del padre”, come disse Don Ferrante. Quel biglietto è mosso da un filo di vento. "Beati i miti, perché erediteranno la terra. Addio Aldo, grazie per il tuo esempio". Ora, l’esempio di Aldo, è rimasto sulle nostre mani.