Fidanzati, lo strazio delle mamme. Il monito del parroco: "La morte cambi qualcosa"

Le due donne vicine nel giorno dell'addio a Carlos. Dal parroco nessun anatema ma anche tra le righe la richiesta di giustizia. L'abbraccio ai genitori, la preghiera comune per i due ragazzi

La mamma di Carlos

La mamma di Carlos

Arezzo, 19 agosto 2018 - «La tua famiglia con amore»: è scritto lì, tra i fiori della cassa di Carlos. Carlos Jesùs Truijllo. Ed è l’unico sussurro che i suoi regalano al ragazzo nel giorno del dolore. Non ci sono palloncini, non ci sono lettere, non ci sono saluti al microfono. E’ la scelta del silenzio, rotto solo dalle parole del parroco. «Non vergogniamoci del nostro dolore, è la cosa più naturale».

Don Giuliano Francioli oltre che parroco di Capolona è direttore della Caritas e in quella veste al dolore e al bisogno ha imparato a dare del tu. E non tenta di nascondere quello che balza fuori dalla gente. «Ma dopo il dolore rialziamoci». Il babbo di Carlos resta per quasi tutta la celebrazione in piedi, di fianco al figlio. Lo raggiunge proprio don Giuliano, allo scambio della pace. Lo abbraccia, lo bacia sulla fronte. E poi riattraversa la chiesa per raggiungere la mamma, che è dalla parte di là, in un altro abbraccio infinito: uno a sinistra e uno a destra, quasi scortare quel ragazzo partito per una vacanza e ritornato in una bara.

«Quando lo avete ritrovato il suo corpo era sotto il cemento». I genitori non lo hanno visto per fortuna in quelle condizioni, sono rimasti qui, a causa del malore della madre. «Ma è ancora qui, vivo in mezzo a noi» quasi grida con forza il parroco. I parenti lo cercano, nel tentativo di un’ultima carezza. Le mani appoggiate alla cassa, specie alla fine, come a volerlo accompagnare.

Mani nodose, di gente che non ha mai smesso di lavorare e che a Capolona come ad Arezzo si è ritagliata anche per questo un suo spazio. Non a caso la chiesa è piena come per la Messa di Natale. Gente ovunque, anche se è il 18 agosto. I volti segnati dal sole dei suoi parenti peruviani, tanti, arrivati anche da fuori. I volti del paese: ci sono anche i due sindaci di Subbiano e Capolona, come se il dolore fosse riuscito a fondere i due comuni.

Ma neanche loro parlano, nel rispetto della volontà della famiglia. E affidano a don Giuliano anche un monito. «Vorrei raccogliere il grido di dolore di questa famiglia e di tutte le famiglie vittime di Genova: non dobbiamo permettere che la loro morte lasci il mondo com’è». Non è un anatema, si affretta a spiegare, nè vuole essere una denuncia. Ma da uomo Caritas chiede tra le righe giustizia e che qualcosa cambi.

Tra le famiglie coinvolte in testa c’è quella di Stella. La mamma della ragazza ricambia la carezza dell’altra mamma: al funerale c’è anche lei, con dei fiori in mano e gli occhiali da sole che a fatica trattengono le lacrime. E ci sono i figli, compreso il fratello di Stella, pastore evangelico. Le due donne restano ad una certa distanza ma la loro presenza si sente. Un’ondata di calore che buca perfino il cemento armato e il freddo di questa storia sbagliata. Nessuna polemica con lo Stato: solo la voglia di riportare subito i figli a casa, di salutarli nel calore di due comunità molto unite.

«Ti cercavamo tuo padre e io, avevamo paura di averti perso». Le parole del Vangelo sembrano riproporre l’angoscia di quelle ore, quando i telefoni suonavano a vuoto e le notizie dei Tg ti urlavano dentro. Ore che vengono ricacciate indietro: ora è il momento delle lacrime.

«Preghiamo insieme per questi due ragazzi insieme nella stessa tragedia»: Giuliano unisce Stella e Carlos nella stessa preghiera, nello stesso canto. E poi fuori. L’applauso spezza per pochi secondi il silenzio che regna intorno alla celebrazione. E i passi di tutti si voltano verso il cimitero, lì dove il giovane viene accompagnato. I genitori e i fratelli in prima fila, il resto del paese subito dietro. Perché Carlos è uno di loro: e non vogliono, fino all’ultimo respiro, lasciarlo da solo.