Covid, la vittima più giovane: muore a 30 anni, il racconto della mamma

Aveva un’importante patologia pregressa. "Dal primo tampone fantasma al secondo all’apparente guarigione". Ricaduta a Natale. Un calvario lungo mesi

Reparto di Rianimazione (foto Paolo Righi)

Reparto di Rianimazione (foto Paolo Righi)

Arezzo, 25 gennaio 2021 - E’ morto col Covid o di Covid? Vai a capirlo, fanno fatica anche i medici che se lo sono visti sparire fra mani sabato sera, al termine di un calvario lungo mesi, che si era fatto più aspro nelle ultime settimane, soprattutto negli ultimi giorni. Di certo, Riccardo L., di Levane ma con origini a Quarata, un lavoro in un ristorante valdarnese, è la vittima più giovane che il virus abbia mietuto in questa provincia dall’inizio della pandemia, undici mesi fa.

Aveva appena trent’anni, compiuti lo scorso 4 dicembre, quando forse nè lui nè la sua famiglia avrebbero immaginato che gli restassero solo un mese e una manciata di giorni da vivere.

Il dubbio è appunto se lo abbia ucciso il Covid da solo, e sarebbe una tragica eccezione per un giovane della sua età in una strage degli innocenti che va a colpire soprattutto gli over 70 e gli over 80, oppure se un contributo decisivo l’abbia dato l’importante patologia di cui soffriva, come trapela da fonti sanitarie.

Quella di Riccardo, tuttavia, è un’odissea che va ben oltre la cronaca della sua terribile fine, al San Donato, nel reparto di terpia intensiva, l’ultima tappa, in cui era giunto una decina di giorni fa. La sua storia la raccontala mamma Anna Maria. Il giovane, dunque, attraversa l’anno del Covid fino all’autunno, senza problemi, in piena salute apparente, come sembrano testimoniare anche le foto del suo profilo Facebook, alcune delle quali scattate in piazza Grande, altre al mare, tutte in situazione di normalità, ben al di là della patologia pregressa che adesso viene alla luce.

E’ alla fine di ottobre che Riccardo si imbatte per la prima volta nel virus, quando il padre col quale vive scopre di essere positivo. Il figlio è inevitabilmente un contatto, per lui scatta il tampone, eseguito il 4 novembre. Sono i giorni più caldi della seconda ondata, quelli nei quali la sanità fa fatica a tener dietro ai ritmi del contagio e anche al tracciamento. Fatto sta che per più di una settimana Riccardo non sa nulla dell’esito.

Allarmato e ansioso, dice la mamma, richiama la Usl: cosa è successo, perchè non non ho più saputo niente? Gli rispondono con un pizzico di confusione: ma lei è quello del 1970? No, replica lui, io sono quello del 1990. Comunque sia, il giovane viene sottoposto a un altro tampone il 24 novembre. Stavolta l’esito arriva quasi subito: leggermente positivo, una di quelle situazioni in cui bisogna aspettare i classici 21 giorni per poi essere considerato guarito, senza sintomi, a norma di direttive ministeriali.

A metà dicembre, quindi, Riccardo è convinto di esserne fuori, di poter tornare alla sua vita normale, tanto che si prepara anche al pranzo di Natale in famiglia. Ma la mattina del 25, il rgazzo chiama la mamma: non posso venire, ho le febbre alta. Contatta la guardia medica, contatta anche l’Usca, la prima linea della lotta anti-Covid, la sera lo ricoverano al San Donato, ospedale dal quale non uscirà più.

La solita trafila degli sfortunati e anche di quelli che al contatto con il virus arrivano già provati da altre situazioni patologiche. Prima l’area Covid, poi la rianimazione e la fine di sabato sera. La mamma non ha niente da dire su come è stato curato e trattato: sono stati splendidi, umanissimi e bravi sotto il profilo medico, abbiamo anche avuto modo di vederlo nelle visite programmate. Resta il dubbio di quel tampone fantasma. Lei vorrebbe capire: perchè non succeda ad altri.