Botero fulminato dagli affreschi di Piero Lasciò Parigi per correre a San Francesco

L’incontro casuale in una libreria di Madrid e la folgorazione. La scoperta di una pittura che disdegna il peso dell’emozione

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Attilio

Brilli

Capita talora che le idee di un artista riferite a un altro artista risultino particolarmente geniali e illuminanti. Su Piero della Francesca si sono espressi con appassionata vivacità e freschezza d’intuito pittori come Maurice Denis e Balthus. Ma né costoro, né altri hanno saputo comunicare, come ha fatto Fernando Botero, la profonda, rivoluzionaria impressione che può determinare la scoperta della pittura pierfrancescana, e di riflesso i valori fondanti che quell’arte rappresenta.

In più di un’intervista Botero ha ricordato il primo, travolgente incontro con Piero, allorquando, artista latino americano senza radici culturali e in cerca di identità, era impegnato in una difficile formazione. Al tempo della sua gioventù, a Medellin, sua città natale in Colombia, non s’era ancora diffuso il culto per l’arte precolombiana e non si avvertiva nelle arti figurative l’esigenza di un’espressione artistica autoctona. Gli unici modelli di riferimento per i pittori erano allora le pale d’altare che erano copie e riproduzioni scadenti di dipinti ispanici e italiani ispirati ai principi della Controriforma cattolica e promossi dalla colonizzazione gesuitica dell’America Latina.

Si trattava quindi di una pittura manieristica e barocca tematicamente votata al culto esasperato del sangue e della sofferenza, una pittura che aveva il compito di suscitare nei fedeli intensa commiserazione per quei martiri e santi che si erano immolati per il trionfo della fede. Rappresentazioni ricorrenti e pressoché uniche delle tele che si vedevano nelle chiese erano quindi indicibili scene di tortura e di martirio con abbondante spargimento di sangue: crocifissioni, lapidazioni, fustigazioni, scuoiamenti, sgozzamenti, abbrustolimenti di uomini e donne seraficamente disposte a incredibili patimenti. Ogni santo o santa, da San Lorenzo in gratella a San Bartolomeo spellato vivo, doveva commuovere e suscitare pietà attraverso l’ostentazione del proprio calvario.

Nelle discussioni che avvenivano nella redazione del giornale per il quale lavorava come vignettista, Botero era solito confrontarsi con i giornalisti che erano stati in Europa fra le due guerre e nell’immediato secondo dopoguerra, i quali riferivano delle tendenze dell’arte a Parigi e nelle altre capitali. Era nato allora in lui il bisogno impellente di lasciare la Colombia per recarsi nel vecchio continente. Solo qui avrebbe potuto perseguire la propria formazione artistica confrontandosi con la tradizione figurativa occidentale. La prima tappa del viaggio era stata la Spagna per l’affinità linguistica e la relativa economicità.

Una sera a Madrid, mentre passa davanti alla vetrina di una libreria, scorge un volume su Piero della Francesca. "Allorché posai lo sguardo sul dipinto della copertina, l’incontro della regina di Saba con Salomone, fu come se qualcuno mi avesse finalmente mostrato cosa è la pittura", commenta, "dal colore più fantastico che avessi potuto immaginare, al disegno incredibilmente pieno e generoso, c’era tutto quello di cui un pittore può sognare". Il mattino appresso Botero acquista il libro – doveva trattarsi della monografia di Roberto Longhi – e su suo impulso sovverte i propri piani. Si reca a Parigi, sua meta prefissata, ma vi si trattiene poco perché intende raggiungere l’Italia per vedere dal vivo l’opera del pittore che l’ha folgorato. E Piero della Francesca è colui che gli rivela la strada maestra per una effettiva maturazione artistica.

Attraverso la "generosità" del disegno e il colore "fantastico", lo spinge a recuperare idealmente quanto nella sua terra era rimasto di una immemore civiltà precoloniale. Il nome di Piero della Francesca a cui Botero si è costantemente ispirato e che ha rifatto nelle sue tele – basti pensare al dittico dei duchi di Urbino con Federico da Montefeltro e Battista Sforza - ricorre in tutte le numerose interviste rilasciate dal pittore. Piero è diventato per lui una costante presenza quotidiana: "Sul comodino tengo testi che hanno a che fare con l’arte", ha dichiarato in un’interista a “Sur” del 2012, "il diario di Delacroix, le tele di Ingres, il Piero della Francesca di Longhi".

Per un artista cresciuto in Colombia con negli occhi il tripudio del sangue che gronda dalle tele della Controriforma, e con nell’animo l’istigazione ad una sorta di pietà e di commiserazione coatta, la pittura pierfrancescana ha avuto innanzi tutto una funzione terapeutica. Essa gli ha mostrato la forza che il disincanto conferisce anche alle scene più brutali.

Negli scomparti del coro della chiesa di San Francesco, ad Arezzo, non mancano cruente scene di battaglia. Vi si scorge tra l’altro un guerriero decapitato con la testa che gli è rotolata fra i piedi, un altro che afferra per i capelli il prigioniero che ha appena sgozzato, un cavaliere che trafigge senza scomporsi il collo dell’avversario rovesciato all’indietro. Ma si tratta di gesti di lotta senza rabbia, di ferite mortali senza spasimo, di atti bloccati per sempre in un tempo immobile e fermo, sottratti al furore del momento ed esibiti dalla perfezione formale nel loro significato di ineludibile evento. Piero della Francesca ha mostrato a Botero, come a tanti altri artisti, la strada maestra da seguire. Essa consiste nel lasciar cadere sulla scena dipinta o narrata uno sguardo disincantato che, in quanto tale, non vuole suscitare reazioni di alcun genere né convincere di alcunché, bensì spogliare la violenza della sua componente emotiva, allontanarla da sé non per negarla, ma per poterne far risaltare, al di là del giudizio morale, l’universale esemplarità.