Bentivoglio, il sorriso che racconta l’Italia

Uno degli attori di punta intervistato in piazza e poi protagonista di "Settembre". Nei suoi ruoli la storia controcorrente del Paese

Migration

di Alberto Pierini

"Le competenze": si sfila per un attimo la "maschera" di chi sarebbe l’ideale leone per un giorno se solo avesse voglia di ruggire. E dai corridoi di "Scialla", la rivelazione italiana della mostra di Venezia 2011, ti regala la scuola che vorresti: dove il babbo difende non l’onore della famiglia ma il figlio, dove chi sarebbe promosso chiede di poter essere bocciato. E dove l’umanità conti più delle competenze. Salvo scoprire che tutti sono d’accordo con lui e che il ruggito era superfluo.

Lui, Fabrizio Bentivoglio, il volto controcorrente del cinema italiano. Senza profilo Facebook, senza la penna per evitare di firmare autografi, il sorriso mite di chi si concede ai selfie perché non può proprio farne a meno. E’ il miglior cinema italiano quello che il Castiglioni Film Festival propone nella sua edizione che da oggi prende il via.

Dov’eravamo rimasti? Al cinepanettone, alla commedia che graffia ma conta i soldi, alla risata irresistibile i Luciano Salce e a quella un po’ più forzata di Neri Parenti. Ripartiamo da chi di commedie ne ha fatte ma senza mai inchiodarsi ad un genere, "Vedrà che le verrà in mente cosa farci di questo gran casino". Da Scialla a "Settembre", da Francesco Bruni a Giulia Louise Steigerwalt.

Fil rouge una commedia italiana ma non all’italiana, un cine senza panettone. Di quelli che danno del tu al sorriso e non alla risata: e che hanno ancora l’ambizione di raccontare l’Italia. Di qua quella coatta ma meno fragile di quanto non si pensi di Scialla, di là quella dei rapporti di coppia saltati ma che ancora tentano di ritrovare una composizione diversa.

E non sai perché ma tutti coloro che ci provano puntano su Bentivoglio. Anzi lo sai, perché la sua "maschera" è una di quelle che somiglia di più al volto. Perfino nella sua caricatura più estrema, il Dino Ossola del "Capitale umano", lì dove l’egoismo sfrenato si traduce nella fuga dei deboli.

Rompendo lo schema solito, quello del personaggio che parte sempre o quasi con il piede sbagliato ma poi riparte. Come il giornalista de "La giusta distanza" (Mazzacurati, la stessa fibra dei suoi registi preferiti), come l’attore di "L’amore ritorna" (regista non a caso Rubini), come il Marco di "Marrakech Express": non conta il successo, ma conta l’amicizia da ricostruire, per mano a Salvatores.

Secondo un filone nel quale i registi che lo scelgono lo riscelgono, fino a costruire i film sulla sua maschera tanto simile al volto. Lui, ex calciatore dell’Inter compromesso da un infortunio ma orgoglioso del suo ruolo di allora, il libero, forse perché non esiste più. O lo studente di medicina convertito alla recitazione mentre studia anatomia. Ascoltando la radio, perché la televisione la ama il giusto. Così come oggi invita i giovani a non cedere a Facebook. E quando lo dice sorride, quasi ad addolcire la forza dell’andamento ostinato e contrario: alla De Andrè, lui nato per la musica e con la passione per i cantautori.

Tre David di Donatello, un Nastro d’Argento, la Coppa Volpi di Venezia per "Un’anima divisa a metà", l’italiano che chiede chi sia e non di dove sia la ragazza che incontra. Come nei film di Segre o quasi tutti i registi che lo scelgono. Sapendo che è uno controcorrente. E che non sarà disposto a girare il sequel. "Nel cinema se ti riesce qualcosa di chiedono sempre di farla uguale" spiega in una delle sue poche interviste. Poi sorride, perché la sua maschera non ama aver ragione. E si tiene alla larga dalle competenze.