Adama era scampato al barcone affondato in mare nuotando tra i morti: poi la risalita

Chi era il giovane rimasto ucciso nel torrente: la prigionia, l'incubo delle armi. In Casentino lo studio, il sogno del liceo, la cucina, il volontariato. Era un punto di riferimento per tutti

Adama Danso

Adama Danso

Arezzo, 20 luglio 2018 - «Era un punto di riferimento per tutti, un ragazzo speciale, socievole, con tanta voglia di imparare, conoscere ed integrarsi. Siamo tutti distrutti». E’ così che gli amici e le responsabili della cooperativa Tahoma descrivono Danso Adama, il ventunenne del Gambia morto annegato nel torrente Archiano, probabilmente risucchiato dalla corrente. Una morte che ha dell’incredibile se si pensa che Adama si era salvato nuotando per km dopo il naufragio della barca che lo avrebbe dovuto portare in Italia, circa 2 anni fa.

Quello fu solo il primo tentativo fallito di fuggire dalla famiglia e dalle gravi condizioni di inciviltà in cui viveva. Era scappato dal suo villaggio in Gambia a bordo di un camioncino, raggiungendo dopo giorni e giorni di viaggio a bordo di mezzi improvvisati e tanti chilometri percorsi a piedi, le coste della Libia dove era stato imbarcato in una nave poi naufragata a pochi chilometri dalla riva. Dopo essersi miracolosamente salvato, nuotando tra i tanti corpi senza vita degli altri naufraghi, Adama aveva deciso di non arrendersi e aspettare una seconda possibilità.

Le immagini dei tanti bambini morti annegati davanti ai suoi occhi, lo hanno tormentato per giorni mentre era rinchiuso nel lager libico insieme ai suoi compagni, minacciato da uomini armati e privato di ogni diritto, in attesa di una seconda possibilità poi arrivata circa un mese dopo. La traversata che poi finalmente lo ha portato in Sicilia, gli aveva aperto la strada verso una nuova vita, questa volta dignitosa. In Casentino Adama era finalmente felice, si era integrato bene, aveva voglia di studiare, imparare, conoscere. In un primo momento aveva vissuto a Poppi dove tutti gli volevano bene.

«Quando esco di casa mi chiamano per nome e in strada mi salutano, come mi conoscessero da sempre» raccontava soddisfatto alle responsabili della cooperativa, orgoglioso di sentirsi accettato in un paese civile, ben lontano da quello in cui era nato. Poi era arrivata una seconda casa, a Partina, da dividere con nuovi amici e conoscenti. Adama aveva da poco preso la licenza media e si sarebbe voluto iscrivere al liceo, per continuare ad imparare e costruirsi un futuro.

«Faceva volontariato, cercava sempre di rendersi utile, ed entrato a far parte di un gruppo teatrale con il ragazzi del centro diurno – racconta Melina Paluani responsabile della cooperativa – era un punto di riferimento per tutti, grazie al suo carattere aperto, pacato, mai sopra le righe. Spesso faceva da intermediario tra noi e i ragazzi, perché riusciva sempre a gestire ogni tipo di problema, senza mai portare rancore».

In Casentino aveva vinto anche le sue paure più grandi. I primi mesi infatti viveva in casa segregato, con le finestre chiuse, per paura che qualcuno gli sparasse o venisse a riprenderlo. L’esperienza nei lager libici lo aveva segnato e le armi erano diventate la sua paura più grande: «Ricordo che la prima volta che vide in strada un carabiniere armato, iniziò a correre senza fermarsi – racconta la responsabile di Tahoma – aveva dovuto fare un lungo percorso psicologico prima di riconquistare fiducia nella gente che lo circondava».

E proprio ora che tutto sembrava andare per il meglio, Adama se n’è andato per sempre, nell’incredulità e nel dolore di una comunità che lo aveva accettato, senza pregiudizi.

Francesca Mangani