Bufera papà Boschi: pagò maxi-multa sui 250 mila euro in nero per la fattoria di Dorna

La vicenda risale al 2007. In casa dell'acquirente fotocopie di banconote per la vendita. "Li ha voluti in contanti". Ma non era estorsione. Con Pierluig un socio citato in indagini antimafia ma mai condannato, illecito fiscale estinto subito col pagamento. Il compratore sentito tre volte: dalla Finanza, dall'allora procuratore Scipio e da Roberto Rossi, all'epoca sostituto, che firmò anche i decreti di perquisizione

Pierluigi Boschi

Pierluigi Boschi

Arezzo, 21 gennaio 2016 - E' sempre nel mirino.Papà Boschi è al centro di una vicenda opaca che si apre nel 2007, si chiude a novembre 2013 e riesplode oggi dopo il default di Banca Etruria. Pierluigi Boschi, ex vice presidente di Bpel, è stato indagato e successivamente prosciolto in seguito alla compravendita di una grande tenuta agricola, la Fattoria di Dorna, a Badia al Pino.

Anno 2007. Alla procura di Arezzo arriva un esposto nel quale si denuncia l’acquisto sotto costo della tenuta e il successivo frazionamento per ricavare il massimo dai lotti venduti. La fattoria, una villa padronale, diversi annessi e 150 ettari di terreni, è dell’Università di Firenze che la mette all’asta per oltre 9 milioni e poi la cede a trattativa privata.

Se la aggiudica la società cooperativa agricola Valdarno Superiore, di cui Boschi è presidente del consiglio di amministrazione. Subito dopo la coop cede la tenuta a un’altra società, appena costituita, denominata Fattoria di Dorna. Boschi detiene il 90% delle quote, l’altro 10% è di Francesco Saporito. Il nome di Saporito compare in un’ordinanza del Gip di Catanzaro: titolare di un oleificio a Petilia Policastro, nell’atto viene indicato da un pentito di ’ndrangheta come prestanome per un gruppo criminale calabrese.

Accuse che non hanno condotto a contestazioni nè condanne. Nella vicenda della tenuta, Saporito ha poi aumentato la sua partecipazione fino a diventarne, assieme alla moglie, l’unico titolare. Nell'esposto, è già il 2010, si sottolineano irregolarità nelle modalità di vendita dei lotti e l’allora procuratore capo Scipio apre un fascicolo, co-assegnato a Roberto Rossi, suo successore, ma all’epoca semplice sostituto. La Guardia di Finanza, su mandato di Rossi, perquisisce sia casa Boschi sia quelle degli acquirenti dei lotti: nella residenza romana di uno dei proprietari – tale Apollonio – spuntano le fotocopie di banconote da 500 euro per un totale di 250mila.

Apollonio racconta che Boschi ha preteso da lui 250mila euro al nero per acquistare la proprietà (pagata in tutto 460mila euro) e lo stesso Apollonio (e non il padre di Maria Elena come erroneamente avevamo indicato ieri, N.d.R.) viene interrogato tre volte: la prima dalle Fiamme Gialle, poi da Rossi e infine da Scipio. L’ipotesi di accusa è estorsione (era già caduta la turbativa d’asta), ma non emergono profili penali: Apollonio avrebbe potuto ritirarsi, non è stato obbligato a comprare con la pistola alla tempia e quindi niente estorsione. Ma il Pm Rossi non si arrende e prosegue le indagini con l’accusa di evasione fiscale per il pagamento in nero.

Subentra l’Agenzia delle Entrate a cui il verbale è stato trasmesso: essendo due i soci, la sanzione va calcolata non solo per Boschi, ma anche per Saporito. E così facendo, si va sotto la soglia della punibilità penale; cade quindi anche la seconda accusa. Resta solo l’illecito fiscale che Boschi corre a coprire: paga la multa all’Agenzia delle Entrate e ne paga anche una seconda a Bankitalia. Il versamento in nero viola la normativa antiriciclaggio sul massimo di contante utilizzabile, che certo non arriva ai 250mila euro riscossi.

Nel corso dell’indagine arriva dal pm della Dda di Firenze, Ettore Squillace Greco, la richiesta alla Guardia di Finanza del fascicolo relativo a Francesco Saporito. Squillace sta indagando, con i carabinieri di Siena, su un gruppo criminale che agisce nel senese. Il fascicolo, però, viene rispedito indietro e Saporito esce da quell’indagine.