{{IMG_SX}}Pozzo della Chiana (Arezzo), 5 gennaio 2009 - Erano in duemila a dirle addio. Duemila: più di quante l’avessero ascoltata nel teatro Ariston quella sera al festival di Sanremo. Duemila raccolte per Valentina Giovagnini, uccisa venerdì da un incidente stradale, nella piazza del suo paese, Pozzo della Chiana.

 

Una piazza ancora addobbata dalle luci di Natale: che però ieri erano spente. Spente perché all’ora del funerale, scandita dall’orologio del campanile, c’era ancora il sole. Spente perché la festa da quelle parti per quest’anno è già finita.

 

E’ finita da quando il passaparola, bruciando le agenzie, ha trasmesso porta a porta la notizia che non avrebbero mai voluto ascoltare. Da quando la morte ha tolto loro l’unica stella che avevano: una stella della canzone che il nome del paese lo aveva portato fino nei canali nazionali.

 

"L’ho battezzata, l’ho vista crescere: sempre solare, mai diva, anche dopo aver assaggiato la notorietà". Don Carlo Bonechi, il parroco, spezza il filo del racconto teologico;: e comincia a dipanare il racconto della vita. Quella che scorre tra le panche della sua chiesa, in piazza. Sugli scalini una ragazza bionda si siede, con i capelli biondi che le coprono gli occhi e le braccia intorno alle ginoccia. Poco distante un altro giovane, con i jeans strappati e la fascia tra i capelli, a tentare di nascondere il dolore dietro gli occhiali. Mille, duemila volti. I volti di un paese che ancora non riesce a credere a quello che ha visto. E forse preferisce credere a quello che ascolta.

 

Prima del vangelo nel silenzio angosciato della chiesa si leva una voce che tutti conoscono: è lei, proprio lei. Niente di sanremese, un Alleluja, registrato tanti anni fa. Perché dai Giovagnini la canzone si è sempre trovata a casa. E te ne rendi conto quando parte l’Ave Maria: un’altra voce di famiglia, Benedetta, la sorella. Anche lei lì, con la mamma, che dopo la Messa accusa un malore poi stringe i denti e arriva fino al cimitero. O il babbo Giovanni, il fratello Giacomo. Il corteo lo apre la banda. E’ lei, la stessa che già avevamo ascoltato nel 2002.

 

Ma allora a Sanremo, su quel palcoscenico intorno al quale duemila persone forse non ci sono mai state. Dalle note della festa alle note del dolore: la marcia funebre, che scandisce i passi di un paese. Escono dalla chiesa e seguono il corteo. Nessuno riesce a staccarsene. Men che meno le sue allieve: ognuna ha in mano una rosa bianca. Ognuna ha una voce che a Valentina deve tutto, o quasi. E glielo riconoscono, lì’, davanti all’altare di San Biagio: il patrono del paese e insieme anche il santo protettore della gola. E forse della voce. Voci spezzate.

 

Quelle delle amiche, Martina e Maria Chiara: vanno al microfono, le dedicano una preghiera. Quella del fidanzato, Stefano. Le ha scritto una lettera: la legge alla fine della Messa. Appena riesci a sentirlo: ma tanto lui sta parlando solo con lei. "Sei una ragazza magnifica: sarai sempre nel mio cuore". Parole che si perdono nella musica, sempre più padrona di casa, anche per gli ultimi passi. Passi pesanti. Quelli che dividono la chiesa dal piccolo cimitero.

 

Sfiorando le luci di Natale, sempre spente, le insegne dei negozi, i cartelli: il mondo che Valentina conosceva come le sue tasche. Il mondo che amava, raccontava ieri Pippo Baudo, più del successo. La banda procede, in quella piazza che sette anni fa l’aveva accolta come una trionfatrice, in barba alla Tatangelo e ai Matia Bazar.

 

Sono sempre loro, loro a prenderla in braccio. Loro a stringersi alla famiglia. Fin oltre la porte del cimitero. E poi a riuscirne, in ordine sparso. La gente comune, i sindaci, gli assessori. In giro neanche un vip, neanche una stella della canzone. E se ci fossero stati avrebbero perso un’altra volta: proprio come in quella serata di Sanremo.