Marina di Pietrasanta, 7 luglio 2013 - NOVANTASETTE anni e una mente che è una saetta. Lo scrittore Manlio Cancogni ha festeggiato ieri il compleanno essendo nato a Bologna il 6 luglio 1916. Lo ha fatto a Fiumetto (Marina di Pietrasanta) dove ormai risiede stabilmente dopo avere abitato a Roma, a Firenze, negli Stati Uniti. Ma è Fiumetto, terra di origine della sua famiglia, il luogo dove è sempre voluto tornare. E qui quest’anno ha tagliato un altro importante traguardo: 70 anni di matrimonio con Maria Vittoria Vittori, detta Rori, sposata il 22 febbraio 1943, in piena guerra «perché non si sapeva come poteva andare a finire». Lei aveva 19 anni, lui neppure 27. Ed è Rori, ancora trepidante al suo fianco, la prima persona di cui bisogna parlare quando introduco con Manlio Cancogni il tema della riconoscenza.

Riconoscenza. Una parola che oggi va poco di moda, eppure tutti noi abbiamo qualcuno a cui essere riconoscenti. Partiamo dalle donne...
Ci pensa un po’ e poi risponde: «Sì, l’unica donna a cui debbo riconoscenza è mia moglie. Mi è ancora oggi indispensabile. Senza di lei non potrei vivere e non solo perché ormai sono vecchio».
Come vi siete conosciuti?
«Rori è fiorentina ma ci siamo incontrati qui a Fiumetto, anzi proprio su questa spiaggia di fronte. Dunque era il ’41 e ero appena stato dimesso dall’ospedale di Prato dove mi avevano ricoverato per un problema al polmone che mi si era riacutizzato in guerra, quando ero sul fronte albanese. Venni a Fiumetto a trovare uno zio, Beppe. Era estate, mi portò al Bagno Rorò dove andava lui e dove aveva amicizie tra cui la famiglia fiorentina Vittori con tre figlie. Una di questa era Rori».
Come le dichiarò il suo amore?
«Ero invaghito di un’altra, una sua amica e non avevo fatto caso a lei. Poi una sera, a casa di questa ragazza che io corteggiavo, cominciammo a parlare. Rori aveva dei pantaloni blu, un maglione blu e una fusciacca di seta rossa alla vita. Mi dissi: ma guarda com’è bellina, non ci avevo fatto caso... L’altra cominciò a piacermi meno. Poi andammo in gruppo sulle Apuane, una memorabile passeggiata al Matanna. Lì capii che era la donna della mia vita. Dopo poco ci fidanzammo. Io insegnavo a Sarzana e lei andava a scuola a Firenze. La raggiungevo la domenica e il lunedì, che avevo libero, andavo a prenderla a scuola!»
Qual è il segreto per restare insieme amandosi per 70 anni?
«Tacere. O almeno parlare poco. Se parli nei momenti difficili dici cose sgradevoli che poi restano. Secondo me con le persone con cui si sta bene bisogna tacere».
Passiamo agli uomini. Quali sono quelli verso cui ancora nutre riconoscenza?
«Il primo è mio padre. Era severo ma mi ha insegnato ad amare i libri, la lettura. Mi portava nei musei romani, a teatro. La sera dopo cena io e le mie due sorelle stavamo con i genitori a tavola a leggere. Scoprivamo gli americani, e poi naturalmente i francesi, i russi. Ma anche gli italiani, romanzieri, poeti. Stranamente durante una dittatura così ottusa come fu il fascismo, c’era una vita culturale vivacissima».
E dopo suo padre a chi è riconoscente?
«Paradossalmente al mio professore di liceo di greco e latino, Antonio Maria Cervi, perché in prima mi bocciò. Era coltissimo, bassotto, sempre vestito di nero, abiti stazzonati, quasi polverosi, ma grecista sopraffino. Dopo la bocciatura continuai da privatista, a casa, e fu così che imparai a studiare. Poi tornai in terza liceo e fui il più bravo della scuola. La bocciatura mi fece scoprire che lo studio era una cosa che non aveva nulla a che fare con il sistema scolastico che non amavo».
Passiamo all’età adulta...
«Ci fu un caro amico quando avevo 18 anni che voglio ricordare: era tedesco ma abitava a Roma, si chiamava Hans Fritz Swarsenski. Un musicista, coltissimo. Componeva anche e da lui imparai tanto. Mi fece scoprire la Biblioteca Nazionale, la sala dell’Augusteo dove ci recavamo insieme ai concerti».
Ce ne sono altri di amici a cui si sente di dovere qualcosa?
«Carlo Cassola. L’amicizia con lui fu intensa e anche con aspetti negativissimi, ma fondamentale per indurmi a scrivere e a continuare a scrivere. Perché io in realtà non avevo la passione letteraria, a me piaceva di più il giornalismo. E infatti un altro cui sono gratissimo è Carlo Levi che mi introdusse nel mondo fiorentino dei giornali».
Poi ci fu Giorgio Bassani.
«Lo conobbi quando dovette scappare da Ferrara perché ebreo, si rifugiò a Firenze. Mi fece leggere i suoi racconti. Poi sono riconoscente a Carlo Laurenzi, giornalista e scrittore, perché è stato mio amico più di quanto io non lo sia stato con lui. E sono grato a Arrigo Benedetti perché non solo mi volle all’Europeo, ma diventai il suo preferito: io, uno sconosciuto e pure bizzoso! Vorrei ricordare infine Ron Banerije, grande amico del periodo americano e Gian Filippo Belardo: quando lo conobbi agli inizi degli anni Novanta era caporedattore della pagina culturale dell’Osservatore Romano. Mi dette la possibilità di collaborare con il giornale del Vaticano ed è lì che ho scritto gli articoli più belli della mia vita».