"Anche mia moglie ha la sclerosi. Ma noi non ci arrenderemo mai"

La testimonianza di Michele: l’esistenza è un dono

Davide Trentini, l'italiano morto con suicidio assistito in Svizzera

Davide Trentini, l'italiano morto con suicidio assistito in Svizzera

Viareggio, 15 aprile 2017 - Michele, 46 anni, vive con la moglie a Viareggio. Dopo aver letto la storia del suicidio assistito in Svizzera di Davide Trentini è un fiume di parole. Ma non è un’urgenza, uno sfogo sull’onda emotiva dettata dal sapere esattamente come ti cambia la vita la sclerosi multipla che sua moglie ha incontrato a 27 anni. È piuttosto una riflessione profonda, sedimentata nel giorno dopo giorno condiviso con quel «nuovo compagno di vita», la malattia, che si è intrufolata nella loro coppia e che sanno con certezza non li lascerà mai più. Le sue sono parole di coraggio e di resistenza, parole asciutte, solide nell’assenza di sbavature, non vogliono commiserazione. Dicono invece di una certezza assoluta: non si arrenderanno. Un punto di vista speculare a quello di Davide. Chi lotta per la vita, chi all’opposto lotta per morire.

Ecco la lettera integrale: 

"Quando accadde la prima volta, verso la fine degli anni novanta, non eravamo ancora sposati, con i nostri progetti ricoperti dalle nebbie dell’incertezza. L’economia già a quei tempi non era in gran salute e per adeguarsi, specie se appena usciti da una facoltà umanistica, era necessario accontentarsi. Ma il disegno di un futuro sì, quello c’era, da colorare appena fosse stato possibile. Stavamo andando a pranzo dai miei, in un’assolata domenica di inizio maggio. A un tratto la persona che sedeva accanto a me in auto iniziò a guardarmi, dicendomi con voce preoccupata: “Non so cosa stia succedendo, ci vedo malissimo da una parte, tutto si sdoppia”.

Quello fu l’inizio. Ovviamente, la domenica e il giorno successivo non portarono miglioramenti, così cominciò l’iter dei controlli, delle visite, degli esami, degli accertamenti. Dopo alcune settimane la diagnosi fu precisa: “Si tratta di sclerosi multipla”. Fino a quel momento ne avevo solo sentito parlare, ma non conoscevo abbastanza di quella malattia neurodegenerativa in grado di attaccare il sistema nervoso centrale. Inutile dire che fu uno shock, un trauma, in un certo senso un punto di non ritorno. Significava avere un nuovo compagno di vita, fino alla fine, e cioè la malattia, considerato che non esistono cure in grado di debellarla ma solo di attenuarne e affievolirne gli effetti. Il mondo sembrò cadermi addosso, non avevamo ancora iniziato la nostra vita insieme che già si presentava un ostacolo all’apparenza insormontabile, e non solo per la malattia in sé. La situazione che si creò intorno a noi aveva quasi del surreale, con alcuni “amici” che mi dicevano “ma chi te lo fa fare, sei giovane, non fare l’eroe, pensaci bene” e via dicendo. Come se una patologia di conseguenza facesse fuori in un colpo solo i sentimenti, gli anni già passati insieme e le difficoltà affrontate. No, neanche per sogno. Sono sempre stato consapevole che la vita è un dono e che nessuno può viverla solo ed esclusivamente come vuole, a suo piacimento. Esistono responsabilità, esistono sentimenti, esiste l’amore, esistono segnali che non si possono ignorare. Ci sposammo due anni dopo, ben consapevoli del percorso a ostacoli che ci aspettava.

Con i limiti e le gioie da vivere e una compagna di viaggio scomoda, ma non per questo determinante per la nostra unione. I primi anni trascorsero senza grossi sconvolgimenti, con la malattia “in letargo”, sempre controllata e una qualità di vita – adesso posso dirlo – molto buona. Qualche leggera flessione ma mai niente di preoccupante, o almeno oltre la soglia della nostra relativa tranquillità. I progetti di vita, già proporzionati alla situazione, andavano comunque avanti. Fino a quattro anni fa. Un sabato mattina mia moglie non riesce ad alzarsi da letto, ha le gambe bloccate. L’aiuto a tirarsi su, non riesce a camminare. Ricovero d’urgenza in ospedale, altre analisi ancor più approfondite, si tratta ovviamente di una ricaduta – stavolta molto pesante – che avrà ripercussioni notevoli sul futuro di ognuno di noi. Sul suo, una quotidianità sempre sul filo del rasoio. Sul mio, che – non avendo alcun sostegno “esterno” – deve essere riorganizzato. Da allora cambiano quattro tipi di cura. Perché si sa, non sono farmaci da banco, gli effetti collaterali sono sensibili, possono comportare notevoli disagi. Si parte dalle iniezioni di interferone, si arriva a farmaci “orali”, di nuova generazione, la più moderna, in uso nel nostro paese solo negli ultimissimi anni. Cambiamo casa, da un terzo piano senza ascensore – impossibile da gestire nella nuova “dimensione di vita” – cerchiamo un piano terra, magari con un piccolo giardino, visto che mia moglie adora le piante e in quel modo avrà la possibilità di dedicare del tempo alla sua passione. Una cura per loro e per lei. Io devo starle vicino e quindi organizzo la mia attività creandomi un ufficio in casa con un piccolo vecchio garage adibito a “magazzino”. Non posso permettermi di non esserci, non posso permettermi di chiedere “permessi”, ferie, di sentirmi rimproverare la mancanza di dedizione al lavoro, no, se mia moglie una mattina sta male io devo esserci per prendermi cura di lei. La vita di ognuno ha le priorità, appunto, di ognuno. Le mie sono queste. Vi chiederete perché ho raccontato tutto questo. Be’, mi è venuto spontaneo dopo aver letto la notizia del suicidio assistito in Svizzera di Davide Trentini, il barista toscano di 53 anni. Davide aveva la stessa malattia di mia moglie, senz’altro a uno stadio più grave e debilitante. Si sa, la sclerosi multipla può causare invalidità e dolore, ma non la morte. E la medicina negli ultimi anni sta facendo progressi impressionanti. Non ho scritto questa lettera per giudicare, ho rispetto per la sofferenza. Quando, trent’anni fa – allora ero un bambino –, mia madre morì tra pene atroci il pensiero di porre fine a quell’agonia con qualche giorno di anticipo – l’esito era infatti scontato – si affacciò nella mente dei miei familiari, e anche nella mia. Ma fu solo un pensiero, nessuno avrebbe avuto il coraggio né la forza di compiere un gesto simile. Ho scritto questa lettera perché mi sento offeso, toccato nella mia intimità.

Mi sento offeso quando leggo di Mina Welby e Marco Cappato che hanno fornito assistenza a Davide perché considerava ormai la sua esistenza come una condanna e non come una vita ancora degna di essere vissuta. Mi sento offeso perché considero questa scelta una resa, una morte della speranza, un rifiuto nel nome di un’autodeterminazione che, se regolamentata, porterà anche un depresso che desidera la morte a uccidersi, com’è recentemente avvenuto in Belgio a una ragazza di 24 anni. Certo, non è la stessa cosa, ma temo queste derive estremizzanti nel nome di un progresso che annichilisce gli sforzi e il desiderio di combattere di chi una malattia come la sclerosi multipla la vive ogni giorno direttamente o, in qualche modo, la conosce bene. Mi sento offeso dalla scelta di Davide, e di chi gli ha dato man forte, pur senza condannarlo. Ma sento i miei sforzi e la mia speranza crollare in quelle poche ore di viaggio che ci separano dalle cliniche della morte".