PERUGIA, 28 MAGGIO 2012 - Chi è Massimiliano Santopadre?
«Sono nato a Roma, 43 anni fa, a San Giovanni, Piazza Re di Roma. Mio padre era maresciallo dell’aviazione, mia madre sarta. Si sono lasciati presto, ma questo non ha provocato grossi traumi. Ho un fratellastro, una famiglia allargata. Ho sempre avuto dentro la vena del commerciante, una grande voglia di emergere in due campi: nel commercio e nel calcio. La seconda l’ho abbandonata presto».
Il primo contatto con la moda?
«C’era un mercato rionale della zona, il mercato di Via Sannio che per noi romani è sempre stato un mercato che faceva moda, quello che usciva da lì diventava tendenza. Ero sempre affascinato e così propongo a mia madre di andare a lavorare lì. Fu una tragedia dentro casa. Lascio la scuola, ma trovo accordo con lei: continuo a studiare la sera e lavoro la mattina al mercato. Alla fine lei ha accettato e io ho conseguito un diploma di ragioneria. Da lì è iniziata tutta la mia carriera che devo dire è stata brillantissima. Dal mercato fino a creare quella che oggi viene definita una delle aziende leader nel mondo dello strettwear giovanile».
Si dice che l’azienda produca tutto in Cina...
«Io stimo molto il mondo asiatico, soprattutto quello cinese. Sono andato per la prima volta in Cina nel 1998, non parlavo l’inglese e neanche loro. Spiegarsi a gesti era un disastro. Ma quella è stata la mia grande fortuna perché in quei periodi la Cina ruiusciva a darti ricarichi importanti. Mi ha dato l’opportunità di andare avanti, di portare avanti l’azienda. Così come stimo molto il mondo turco. Oltre la mia capacità imprenditoriale, la mia fortuna è stata prendere quegli aerei. La produzione di oggi è trenta per cento Cina e settanta per cento Turchia, con delle sporadiche produzioni italiane: ora sto facendo il denim qui».
Perchè la passione per la Roma e non la Lazio?
«Avevo un padre impazzito per la Roma e quindi sono diventato romanista. Però io ho rispetto per i laziali».
Il calcio può essere business?
«Non credo. Come in tutte le regole c’è l’eccezione, come può essere per l’Udinese o il Chievo. Ma per me il calcio è una passione che ti fa rimettere soldi. Spendevo cifre importanti per la pubblicità, ma poi ho deciso di impiegare una parte del budget, che non crea problemi alla mia azienda, nel Perugia».
L’avvento al Perugia?
«Nasce dalla voglia di emergere nel mondo del calcio, ho due società dilettantistiche a Roma. Il mio arrivo al Perugia è stato un po’ casuale: un mio carissimo amico, Paloni (che oggi lavora nel marketing del Grifo, ndr), mi ha presentato Moneti. Ho impiegato dieci minuti a decidere, ma perché ho valutato l’uomo. Mi è piaciuta la sua umiltà, mi sono sentito a mio agio. Avevo qualche timore a entrare nel mondo dei professionisti, ma con lui mi sono trovato subito bene. E poi si parlava del Perugia, perché ad altre società come Atletico Roma, Como per esempio, ho detto di no. Questa piazza ha qualcosa di diverso».
Era mai stato a Perugia?
«Da tifoso un paio di volte, quando ci ha giocato la Roma. Poi una volta in gita con la scuola. Per me è ancora una scoperta perché un anno è poco per conoscere questa realtà».
I soldi bastano per vincere? Quale è il budget per la prossima stagione?
«Oggi si può sfruttare il nome Perugia. La cifra che spenderemo quest’anno è abbastanza ma soprattutto i giocatori sono disposti anche a fare qualche sacrificio pur di venire qui e vestire questa prestigiosa maglia. Il budget sarà sui quattro milioni».
Il calcio è un rischio per le aziende?
«E’ la cosa che più mi spaventa. Sto lavorando per non farmi prendere la mano. Dico una cosa che va capita bene: mi ha dato fastidio la situazione che si è creata tra Battistini e la curva (il riferimento è allo striscione «Battistini non si tocca», ndr), non tanto per l’attestato di stima del tifoso nei confronti dell’allenatore, ma perché questo mette le società in difficoltà a livello economico. I club devono poter trattare coi dipendenti senza influenze esterne che possono creare problemi nella gestione. Bastava un ’Battistini forever’».
Il progetto è quello di tornare in A?
«E’ fare bene tutti gli anni. Ora intanto pensiamo a conquistare la B in due anni».
I romani: Gaucci ha fatto grande il Perugia, Silvestrini non c’è riuscito...
«Non tutti i romani sono uguali. Non bisogna generalizzare».
Cosa serve per fare bene nel calcio?
«Oculatezza, tanta passione e serietà».
Ha creato qualche barriera a Perugia, chiudendo gli allenamenti...
«Per ovvi motivi Pian di Massiano resta chiuso. Da quando abbiamo chiuso le porte, abbiamo lavorato meglio. Capisco l’esigenza del cittadino, del tifoso e mi dispiace, ma è più difficile lavorare. Si va avanti con questa via».
Ha avuto pressioni da ambienti romani per portare allenatori, direttori sportivi e giocatori?
«Ricevo cento telefonate al giorno. Porto solo persone che possono fare bene. Voglio persone valide».
Che Grifo vuole vedere il prossimo anno?
«Migliore rispetto a quello di quest’anno. A trecentosessanta gradi, anche nel gioco».
C’è un presidente al quale si ispira?
«Non ho idoli. Non ne ho mai avuti, nemmeno tra i calciatori. Potrei dirne dieci e prendere il meglio da ognuno».
Un giocatore che vorrebbe portare?
«Ne voglio sei, forti. Più altrettanti giovani».
Che idea si è fatto di Perugia e dei perugini?
«E’ presto per giudicare questa realtà, nel bene e nel male. Per quello che ho visto allo stadio, quello di Perugia è il pubblico che mi ha emozionato di più. E’ una delle curve migliori d’Italia. Se si fa bene, il feeling nasce subito e spero che i tifosi non mi trattino male nel caso in cui i risultati non dovessero arrivare subito. Perché poi c’è il campo».
Pensate di aprire a nuovi soci?
«Soci non ne vogliamo. Per il resto, aperture totali. Qui entra in ballo Gianni Moneti che sta incontrando tante aziende, sta allacciando rapporti per trovare nuovi sponsor che potranno starvi vicino. Ringrazio lui, perché alcuni di questi imprenditori non venivano più nemmeno allo stadio».
Tre aggettivi per definire Santopadre?
«Umile, ambizioso e serio».
Il difetto più grande?
«Rido poco. E questo mi fa passare sempre per scontroso e arrogante. Invece è carattere, è la timidezza».
Perché Frankie Garage?
«Io nasco nel 1998 con un altro marchio che era Ireland che mi ha portato importanti successi che mi hanno poi consentito di aprire l’azienda. Sentivo però l’esigenza di creare qualcosa di diverso, visto che in questo mondo bisogna sempre trovare idee nuove e così nel 2005 è nato Frankie Garage grazie all’intuizione di un grafico che si è rifatto al viso di Frank Zappa, famoso cantante, rendendolo cartone animato e lavorandoci sopra. Poi mi hanno proposto di aggiungere la parola «garage» e mi ha colpito perché in ogni via di fatto c’è la scritta «garage» e quindi restava nella mente, suonava subito bene.Familiare. All’inizio ho avuto grandissime difficoltà, la gente era stuzzicata, ma vendevo poco e niente, risultati zero. Finché ho preso la decisione di entrare nel calcio come sponsor e lì un po’ di successo immediato è arrivato, anche se l’azienda faticava molto, rischiando di capitolare».
Quale è stata la svolta dell’azienda?
«Il famoso pantalone della tuta con la scritta Frankie Garage sul sedere. Un’idea che è stata il vero cavallo di battaglia e che ci ha permesso di cambiare le cose e continuare questa avventura bellissima».
di FRANCESCA MENCACCI
e STEFANO DOTTORI