"Partì per la guerra, poi solo silenzio". Grazie al test del Dna ritrova il padre

Perugino riporta a casa dalla Germania le spoglie dopo 70 anni

Franco Roscini

Franco Roscini

Perugia, 29 maggio 2015 - «DOPO settanta lunghissimi anni sono finalmente riuscito a riportare mio papà a casa e l’emozione che provo oggi è difficile da descrivere a parole». Mentre racconta la sua toccante storia, Franco Roscini, pensionato 76enne di Perugia, ha gli occhi lucidi e la voce commossa. Non riesce ancora a credere di avercela fatta, eppure proprio accanto a lui ci sono le spoglie del padre ucciso in Germania durante la seconda guerra mondiale e rimaste anonime fino a pochi mesi fa, all’interno del cimitero monumentale di Amburgo. Quei resti mortali che Franco ha cercato senza mai mollare e che il test del Dna ha attribuito al genitore, sono di nuovo a casa, custoditi in una piccola cassa avvolta nel tricolore.

UNA LOTTA contro il destino e gli ingranaggi burocratici li ha riportati in patria lunedì a bordo di un volo diretto Amburgo-Fiumicino dopo che la scienza, lo scorso settembre, aveva messo la parola «fine» alla battaglia di Franco per ottenere il riconoscimento delle ossa paterne sepolte in terra tedesca. Alberto Roscini, classe 1907, non è più un milite ignoto. Perché così era stato classificato essendo rimasto privo della piastrina identificativa. Nella sua tomba sono stati ritrovati anche alcuni effetti personali del soldato nostrano: un pettine e una penna stilografica ma anche cucchiai, recipienti e cinturini. Tutto riconsegnato ai familiari. «Non mi sono mai arreso – spiega Franco – perché nonostante le difficoltà sentivo il dovere di fare il possibile per ritrovare chi mi ha dato la vita insieme a mia madre». È stata lei a dare il via alle ricerche che il figlio ha portato a termine mettendo insieme vecchie lettere e raccogliendo testimonianze. Come è risalito al cimitero di Amburgo? «Attraverso una serie di ricerche ho saputo che nel 1958 i resti di dieci soldati italiani senza nome erano stati trasferiti lì dal cimitero di Bensberg, vicino a Colonia. La stessa cittadina in cui mio padre era stato fatto prigioniero dai tedeschi e dove, secondo le mie fonti, aveva perso la vita il 12 aprile del 1945 durante un bombardamento americano». Come lo ha scoperto? «Grazie ad un documento del Vaticano inviato alle mogli dei dispersi in cui si informava dell’eccidio e della sepoltura in loco fatta da un cappellano della chiesa. Ma a confermarlo è stato anche un ex militare umbro sopravvissuto che, una volta rientrato in patria, ci ha riconsegnato anche il portafoglio di papà». Cosa conteneva? «Fotografie che ritraevano me e mia madre e le lettere che riceveva da lei. C’era anche la piastrina identificativa e qualche immagine sacra». Il risultato più atteso è stato quello del Dna. Che iter ha seguito? «Ho presentato la domanda nel 2009 al Ministero della Difesa Onorcaduti che solo lo scorso anno ha soddisfatto la mia richiesta autorizzando il test del dna sui resti dei dieci soldati ignoti, tra cui quelli della tomba numero 55». E poi cos’è successo? «Una volta avuto l’ok, mi sono recato ad Amburgo per sottopormi al prelievo che ha dimostrato una compatibilità del 99,99994%». Che ricordi ha di suo padre? «Pochi purtroppo, perché quando è partito per andare in guerra io avevo appena due anni. Ma ogni giorno accarezzo la sua foto e piango per questa gioia inaspettata».

Chiara Santilli