La città salvata dai giovani fiorentini: quei ragazzi, i veri angeli del fango

Pala e secchi, a lavoro senza soste. La generazione che oggi ha 70 anni

Alcuni angeli del fango durante i giorni dell'alluvione (New Press Photo)

Alcuni angeli del fango durante i giorni dell'alluvione (New Press Photo)

Firenze, 25 ottobre 2016 - Molte famiglie bene portarono i figli al mare, ai monti, nelle seconde case o nelle ville in campagna. Volevano evitare che si bagnassero i piedi, si sporcassero le mani, vivessero il disagio di starsene senza acqua o senza luce, vedessero da vicino le disgrazie altrui. Ma gli altri, tutti gli altri, scesero in strada. Una generazione di ragazzi chiamata a risollevare la città. Furono i genitori a spedirli fuori: «Tocca a voi, noi abbiamo già dato con la guerra». Furono gli insegnanti: «Non c’è scuola, c’è invece da aiutare più gente che potete».

Ma soprattutto fu una rete sociale che oggi ci sogniamo, le cento parrocchie fiorentine e le Case del popolo, luoghi di incontro e azione che controllavano ogni strada e ogni edificio, a organizzare il lavoro. I giovani si radunavano al mattino, trovavano la lista delle persone che avevano chiesto aiuto, e via a pulire negozi e magazzini, laboratori artigiani, cantine, case di anziani.

Al Comune trovavano una fiala e una siringa, “l’antitetanica” che, dicevano, li avrebbe garantiti da ogni rischio. I più fortunati trovavano anche una mascherina per coprirsi la bocca. Ma l’importante era possedere una pala. Quanti erano? Senza distinzione fra ragazzi e ragazze, ricchi e poveri, allievi dei licei o degli istituti tecnici, si calcola che fossero almeno diecimila. I più piccoli avevano 15 anni, la gran parte erano ventenni, figli del baby boom del dopoguerra. Lavorarono sette giorni su sette fino all’Epifania, sessanta giorni o giù di lì.

E lo fecero senza chiedere un soldo, né un riconoscimento, medaglie o diplomi per ricordo. Anzi storcendo il naso tutte le volte che qualcuno, in questi cinquant’anni, ha chiesto loro di ricordare quei giorni. Perché non erano angeli, figuriamoci. E già il termine suonava retorico e perfino ruffiano. Erano alluvionati ed arrabbiati, punto e basta. Toccava loro risollevare la città, e chi l’ha fatto davvero non ha mai ostentato il proprio impegno.

Nè mi risulta che uno solo, a distanza di anni, si sia presentato in qualche negozio del centro, quelli griffati, per dire: «Lo sa che questi locali li ho ripuliti io dopo l’alluvione? Me lo fa un bel regalo?». E allora, ci furono gli angeli o li hanno inventati i retori, i professionisti delle celebrazioni che coniano medaglie e definizioni da consegnare alla storia? Ci furono, senz’altro.

Quanti arrivarono da ogni parte d’Italia e dall’estero, furono sicuramente degli angeli. E si meritarono, oltre la medaglia, anche le elucubrazioni sul tema che si sono sentite in questi anni, ‘la meglio gioventù’ e così via. Ma non dimentichiamo che il grosso del lavoro, il più sporco, fra vetri rotti e carcasse di animali, ferri che perforavano le mani, odori nauseanti e rischio di colera nei locali riaperti dopo settimane, cantine vuotate con i secchi in spalla risalendo lunghe scale a pioli, tutto questo l’hanno fatto coloro che angeli non vollero essere, né allora né mai.

Perché quella generazione – oggi di settantenni – sapeva che il bene comune è anche bene proprio. E se si salva il vicino ci salviamo anche noi. E che civiltà, società, non sono termini astratti, perchè tutti insieme affoghiamo o ci portiamo in salvo. Non angeli, più o meno svolazzanti, ma qualcosa di molto più concreto. Quei ragazzi erano semplicemente fiorentini. Per questo sono rimasti in silenzio. Fino ad ora.