Alluvione, Zeffirelli: "Angeli del fango? Fui io il primo a chiamarli così"

«In quei momenti capii quanto la mia città fosse amata nel mondo»

Immagini così non erano inusuali  nella Firenze del'66 martoriata dall’alluvione

Immagini così non erano inusuali nella Firenze del'66 martoriata dall’alluvione

Firenze, 4 novembre 2016 - «Ho avuto un trattamento generoso dalla vita, e la grande partenza si è allontanata. Guardo avanti con fiducia. Allungo le mani, cammino verso il grande mare e vedo che tutto si fa più distante e si ritira ogni giorno di più». Il Maestro Franco Zeffirelli è l’italiano più famoso nel mondo. Il suo Gesù di Nazareth fu visto fa oltre un miliardo e mezzo di persone. Ma come quando si avvoltola intorno al collo la sciarpa viola, ogni 4 novembre si sente più che altro fiorentino. «Quando viaggiavo portavo sempre nella mia valigia una foto del Cupolone. In qualsiasi camera di albergo arrivassi lo tiravo fuori e l’appoggiavo sul comò». E da fiorentino ricorda con emozione quel 4 novembre di cinquanta anni fa. Nel giardino della sua villa sull’Appia antica la voce esce piano, ma i ricordi sono nitidissimi. «Avevo appena finito di girare La Bisbetica domata con Burton e la Taylor, stavo montando. Ero a Roma. Al mattino presto sentii il telefono squillare».

Chi era?

«Mia sorella Fanny, da Firenze. Quando riconobbi la voce mi prese un colpo perché il babbo, che abitava con lei, stava male da tempo e non camminava. Era su una seggiola a rotelle. Pensai a una disgrazia».

E invece?

«Fanny mi disse che stava accadendo qualcosa si tragico in città. Era tutto buio, ma si sentiva il rombo dell’acqua che saliva. Abitavamo in via dell’Oriuolo, dietro al Duomo, e lì l’alluvione fu potente».

Che cosa fece?

«Mi precipitai subito a Firenze. Con grandissima fatica e qualche mezzo di fortuna raggiunsi casa dei miei, e poi feci l’unica cosa che in quei casi fa un regista».

Cioè?

«Chiamai Ettore Bernabei e gli chiesi una macchina fotografica e una troupe per iniziare a girare».

Firenze moriva e Lei chiese una macchina da presa?

«Ma i registi, gli artisti sono così. Era il mio modo per rendermi utile».

In tutto quel caos ci riuscì?

«Mi misi gli stivali e iniziai ad andare in giro per la città. Vedevo solo fango e disperazione. Mi colpiva quell’onda nera, causata dalla nafta con la quale a quel tempo andavano i riscaldamenti. E l’odore, terribile, di petrolio. A parole o anche con le immagini era difficile mostrarlo. Eppure fotografavo, e filmavo. Poi chiamai Burton».

Richard Burton era in Italia?

«Era ancora a Roma, perché le riprese de La Bisbetica domata erano finite da poco. C’era da fare il doppiaggio, ma gli dissi di mollare tutto e di raggiungermi. Burton amava profondamente Firenze, come tutti i britannici. Venne subito e con lui nacque l’idea del famoso documentario prodotto dalla Rai poi diventato celebre in tutto il mondo».

Burton nel documentario è fantastico. Magnetico. Parla un italiano con accento gallese da cineteca.

«È molto affascinante, uno sguardo che cattura e lascia senza fiato. In questa piscina qui sull’Appia antica conobbe Liz Taylor, qui si sono dati il primo bacio».

Che valore ebbe quel film per l’alluvione e Firenze?

«Lo girammo in pochissimi giorni e lo montammo subito, proprio con lo scopo di far conoscere il dramma di una delle capitali del mondo, e del nostro straordinario patrimonio culturale. A quel tempo le comunicazione erano molto più lente di adesso, e per colpire l’opinione pubblica serviva agire in fretta. Ne facemmo due versioni, una in italiano e una in inglese».

E fu visto dovunque.

«Ci servì a racimolare molti soldi, decine e decine di milioni di dollari. In quei casi gli americani sono molto generosi, perché già a quel tempo certi tipi di donazioni erano esentasse. Penso che contribuimmo in maniera decisiva a creare quel moto di solidarietà collettiva a livello mondiale che tutti conosciamo».

Gli angeli del fango.

«Sinceramente credo di essere stato io a usare per primo quel termine. In quel novembre nacque il volontariato civile. Fu la prima volta al mondo».

A distanza di anni che sensazione le ricorda l’alluvione del ’66?

«È stata un’esperienza terribile dal punto di vista umano, ma provo un bellissimo ricordo. Perché mi resi conto di quanto fosse amata Firenze in tutto il mondo, e perché venne fuori il vero spirito dei fiorentini».

Polemici, litigiosi...

«Si, è vero. Purtroppo. Siamo tutto questo, ma nei momenti bui sappiamo unirsi in difesa della nostra città. Un riflesso antico, da repubblica del Rinascimento, che non abbiamo mai perso. Forse perché sappiamo di essere privilegiati per il solo fatto di essere nati qui, e questo ci dà una responsabilità ulteriore».

Maestro, adesso come passa le sue giornate?

«Incontro tante persone, tutti gli attori di Hollywood che passano da Roma vengono a trovarmi. L’altro giorno c’era Richard Gere. Questa casa è sempre piena di gente. Lavoro. Guardo bozzetti, li correggo, penso alla mia fondazione, quella che sto costituendo con il comune di Firenze e alla quale ho destinato tutto il mio immenso archivio. E ogni scusa è buona per tornare a Firenze a vedere dal vivo il Cupolone».