Un canestro per beneficenza

Arriva in Africa lo Slums Dunk: l’iniziativa per aiutare i bambini delle baraccopoli

I giocatori con bambini africani

I giocatori con bambini africani

Siena, 25 luglio 2015 - Barriere sociali, geografiche, linguistiche. Quello che va al di là di qualsiasi confine è lo sport, un linguaggio comune che chiunque può parlare: strumento che unisce e trasmette cultura. Questa la filosofia che ha spinto cinque anni fa un gruppo di professionisti del basket italiano, capitanati dall’argentino Bruno Cerella e dal senese Tommaso Marino, a dare vita a Slums Dunk. Sì, una storpiatura linguistica è all’origine dell’iniziativa umanitaria: la slam dunk (schiacciata a canestro) è diventata ‘slum’, termine che indica la baraccopoli. Perché questo è lo scenaro in cui ‘la meglio gioventù’ agisce: con un progetto che mira a migliorare le condizioni di vita di bambini che vivono in aree economicamente e socialmente degradate. In questo caso siamo nella baraccopoli di Mathare, in Kenya, dove vivono 100mila persone in 1,5 chilometri quadrati; e il 50 per cento della popolazione è composta da giovani sotto 18 anni, in condizioni d’isolamento e senza servizi primari.
Ebbene, nel cuore nero dell’Africa batte lo spirito senese. L’associazione due anni fa ha realizzato qui un’academy, una sorta di scuola di basket, con due campi da gioco, al centro della baraccopoli: sono stati formati una decina di allenatori e ogni giorno qui si recano i ragazzini (da 8 a 13 anni) di 12 scuole, a giocare. Lo svago quotidiano che insegna e aiuta a vivere. Ogni estate, durante le ferie, i nostri cestisti si precipitano in Africa per regalare due settimane di camp a oltre un centinao di ragazzini. Cerella, Marino e company portano tute, completi da gioco, scarpe e palloni e passano le loro giornate ad insegnare a divertirsi con un canestro. Così è successo anche quest’anno: Tommaso Marino, oggi a Treviglio Basket, senese del Montone, è appena tornato dal quinto viaggio a Nairobi: «Per me è ormai la seconda casa, non vedo l’ora di tornarci ad ogni estate. Anche questa volta è stata una grande gioia. I bambini mi riconoscono, mi chiamano Tommi e mi abbracciano: ripagandomi di qualsiasi dubbio. Condizioni igieniche pessime, strutture inesistenti, fai fatica a camminare per cento metri fra fango e gente. Eppure sono contenti di vederti, quasi più felici della loro vita di quanto lo sia tu della tua. Per loro la nostra presenza equivale ad una festa; io vado a dormire ogni sera con il sorriso».
Con Tommaso quest’anno è partito anche Niccolò Franceschini, istriciaiolo: «Ho sempre seguito da qui le missioni, quest’anno sono voluto andare. C’era bisogno di un supporto tecnico per gli allenamenti e di qualcuno che si occupasse di filmati e foto. Questo progetto vive di filantropia e diffondere le immagini dell’esperienza è fondamentale, magari ad invogliare ad aiutarci. Sono state due settimane bellissime: dai attenzioni, motivazioni a chi non ha nulla. Vorresti farli giocare a pallacanestro e loro non hanno nemmeno le scarpe, ma corrono, si impegnano, si divertono».
Paola Tomassoni