Infortuni sul lavoro, l'odissea di Silvio e Catia lunga 30 anni. "Quell’attimo ci ha cambiato la vita"

L’uomo di Sinalunga cadde da un ponteggio restando 12 giorni in coma

Silvio Lo Conte con la moglie Catia Carniani (Foto Lazzeroni)

Silvio Lo Conte con la moglie Catia Carniani (Foto Lazzeroni)

Siena, 8 ottobre 2015 - «NON RIESCO ad esprimermi bene, dimentico le cose». Mette le mani sugli occhi per nascondere la commozione, Silvio Lo Conte. «Dai, forza, smettila», insiste la moglie accarezzandogli la testa. Lo guarda con amore, come se fossero ancora fidanzati. Invece hanno condiviso un’odissea lunga oltre trenta anni a causa del gravissimo infortunio sul lavoro (peraltro non l’unico) occorso all’uomo. Che ha dilaniato la vita di questa coppia di Sinalunga. Silvio e Catia, però, non hanno mai mollato. Nonostante gli interventi chirurgici e la lunga riabilitazione, la burocrazia che crea montagne e il mondo esterno sovente indifferente. «Un trauma che non ti lascia più – spiega la donna, 52 anni –, in un attimo la vita cambia. Di colpo». Storia di dolore e tanto amore, di disperazione e qualche luce. Perché, nonostante tutto e tutti, Silvio è ancora vivo. «Coltivo l’orticello vicino a casa, abbiamo cani e gatti. Tutti trovatelli, naturalmente, che avevano bisogno di aiuto», racconta con un filo di voce l’uomo. Che oggi ha 57 anni e vive con la pensione di invalidità. La moglie Catia Carniani, prima commessa in un negozio, è la sua ombra. Senza la forza e l’amore della donna non ce l’avrebbe fatta a superare il buio della disperazione. Che l’aveva avvolto quando, nel 1982, si era appena messo a fare l’imbianchino, cadde da un ponteggio mentre verniciava la porta di un capannone. Aveva 23 anni. «Batté la testa in modo violento, venne portato in ospedale ma non a Siena, allora c’era il Santa Maria della Scala. Quando fu trasferito qui – la donna rivive l’inizio del dramma – gli riscontrarono due grossi ematomi. C’era una probabilità su mille che vivesse, effettuando un delicato intervento. Rimase dodici giorni in coma». Catia e Silvio all’epoca erano fidanzati. «Ci siamo sposati un anno e mezzo dopo. Gli era stata applicata una grande protesi alla testa», dice toccando i capelli del marito che riescono a nascondere solo parzialmente l’intruso.

La loro forza è stata l’unità. Essere due anime in un nocciolo. Silvio non ha voluto figli. «Se dovessi morire, diceva, in che condizioni vi lascio?», scandisce Catia guardandolo. Gli anni – anzi, i decenni – seguenti sono stati una battaglia condotta sempre in trincea. «All’inizio non sai come muoverti nei meandri della burocrazia, servono più informazioni invece sono poche, frazionate e centellinate. Spero che la nostra testimonianza serva a voltare pagina», aggiunge la donna. Che a causa di ciò che ha passato soffre di attacchi di panico. «Come si regge di fronte a tutto questo? All’inizio devi fare le cose per cui non pensi, batti i pugni sul tavolo se c’è bisogno. Poi crolli». Catia si è sempre rialzata, però. Anche dopo il secondo infortunio sul lavoro accaduto a Silvio. Era bidello alle scuole elementari, nel 1995, perché non poteva più fare la manutenzione esterna per il Comune in quanto avvertiva forti dolori alla testa. Una finestra si aprì con il vento mentre si alzava. Fu colpito nella parte in cui aveva la protesi, si ruppero alcuni filamenti tanto che si spostò. E tuttora, accarezzando la testa dell’uomo si avverte bene lo ‘scalino’. «Andammo persino a Parigi, oltre che a Milano e Verona per capire se era il caso di operarsi ancora. I rischi, alla fine erano maggiori, così fu deciso di soprassedere». Come se non bastasse, più di recente, un terzo infortunio che l’ha costretto ad un’operazione alla gamba. E alla definitiva pensione, nel 2008. «Cosa chiedo oggi? Calma, tranquillità. Solo questo», sussurra Catia. Nessuna esitazione. Sono il bene più prezioso al mondo.