Siena, 9 novembre 2013 - CONCLUSE le indagini sugli abbattimenti — «non autorizzati» dice il pm — di ungulati in tre differenti riserve naturali della nostra provincia. Ai venti indagati, tra i quali Giampiero Sammuri, al tempo dei fatti dirigente del servizio risorse faunistiche e riserve naturali del Senese e oggi presidente di Federparchi, all’ex comandante e a quello attuale della polizia provinciale e ai proprietari dei terreni è stato notificato proprio in questi giorni il decreto con il quale il sostituto procuratore della Repubblica Nicola Marini li avvisa della fine degli accertamenti che riguardavano fatti accaduti fino al 2010. Alla maggior parte di loro viene contestato l’abuso d’ufficio.


Tutti gli indagati fin dall’inizio dell’inchiesta, che ha impegnato a lungo gli uomini della Finanza e della Forestale delle rispettive squadre di polizia giudiziarie della Procura della Repubblica, attraverso i loro legali avevano controbattuto alle accuse producendo una consistente mole di documenti.


L’inchiesta ha riguardato un lungo periodo di tempo (dal 2004 al 2010) e verificato gli abbattimenti di ungulati nelle riserve naturali regionali di Lucciola Bella, Crete dell’Orcia e del Formone, Alta Val di Merse e Basso Merse. Per la Procura della Repubblica erano stati fatti senza richiedere preventivamente né ai competenti organi regionali, né a quelli nazionali il previsto parere obbligatorio per le riserve naturali regionali. Anzi — sempre secondo l’accusa — erano state redatte apposite relazioni tecniche in cui si evidenziava la necessità di fare gli abbattimenti per ridurre i danni alle colture. Eppure sottolinea il pm Marini nessuno aveva mai preventivamente eseguito alcuna specifica attività di monitoraggio e censimento della popolazione degli ungulati, tanto che non risultano «situazioni o studi specifici tali da evidenziare squilibri ecologici della fauna selvatica all’interno di queste riserve naturali».


E nella richiesta di rinvio a giudizio viene puntato il dito anche sul modo di fare gli abbattimenti che «procuravano agli indagati un ingiusto vantaggio patrimoniale». Infatti secondo il pm venivano fatte con il metodo, non consentito, della «braccata». In pratica venivano usati veicoli, a volte di proprietà dell’amministrazione provinciale, dai quali si sparava agli animali. I proprietari dei terreni, sempre secondo il pm Nicola Marini, venivano fatti partecipare senza aver, tra l’altro, frequentato appositi corsi d’istruzione e alla fine ricevevano parte degli animali uccisi come risarcimento dei danni alle colture nonostante che i dirigenti sapessero che gli stessi proprietari venivano totalmente risarciti dalla Provincia. Accuse che gli indagati hanno sempre contestato fin dall’inizio. Ora la parola passa al giudice dell’udienza preliminare.