Siena, 21 luglio 2011 - «Sicuramente oggi mi sento più sollevato, per quanto in questi cinque anni ho, comunque, vissuto con tranquillità. La tranquillità di sapere che sopra di me pendevano accuse ingiuste. Ho continuato a svolgere il mio impegno pastorale al servizio della diocesi». Don Giuseppe Acampa è seduto nel suo ufficio di economo all’interno della Curia. Dalla finestra, aperta alle sue spalle, arrivano le voci di chi passa sotto. Il tavolo è ingombro di documenti. Ha appena concluso una riunione con due collaboratori. Quando ci riceve l’orologio segna esattamente la stessa ora in cui martedì pomeriggio il giudice, Monica Gaggelli, leggeva la sentenza con cui lo ha assolto dall’accusa di aver appiccato l’incendio del 2 aprile 2006 agli uffici della diocesi senese («per non aver commesso il fatto») e da quella di calunnia nei confronti del professor Franco Nardi, per trent’anni archivista volontario della Curia, («perché il fatto non sussiste»).
Quale sentimento ha provato?
«Quello della liberazione. Pur sapendo che contro di me c’erano solo accuse ingiuste è comunque stata una prova. Da credente e da sacerdote l’ho vissuta come la mia ‘croce’. E, fortunatamente, ho avuto confratelli e amici che mi sono stati vicini e mi hanno aiutato a superare anche i momenti di inevitabile tensione».
Ieri, quando il giudice Gaggelli si è riunito in camera di consiglio, che cosa ha fatto?
«Ho pregato per un’ora e un quarto. Mi sono affidato al Signore. Un’esperienza come quella che ho vissuto ti porta a relativizzare tutto, a ricollocare le cose al loro giusto posto ed accettare la vita che il Signore ti dona».
Quest’esperienza l’ha cambiata?
«Inevitabilmente. Mi è capitato, casualmente, di confrontarmi con qualcun altro che ha vissuto una situazione analoga e anche questo è stato un arricchimento».
Nel corso del processo ha partecipato a tutte le udienze. Ha ascoltato anche coloro che l’accusavano. Cosa ha provato?
«Uno cerca di capire il perché e cosa alberga nel cuore delle persone. In questi 5 anni è stata messa alla prova la mia fede nella Chiesa, nei miei confratelli. E quello che è più importante è che da parte mia è maturato ancora di più il senso di appartenenza a questa Chiesa, a questo presbiterio».
Lei è un prete giovane, culturamente preparato, tecnologico e, forse, per questo ‘scomodo’. Può aver influito negativamente?
«Ho un carattere ben delineato, se devo dire una cosa la dico direttamente. Poi, sicuramente, sono stato al centro di un cambiamento repentino all’interno dell’organizzazione della diocesi. Un cambiamento che è avvenuto in tutti i contesti, ma che al nostro interno, forse, è avvenuto ad una velocità maggiore che altrove, perché eravamo più indietro».
Ma tutto questo giustifica i 5 anni passati?
«Siamo nelle mani di Dio. Ho pensato che questa fosse la mia croce e l’ho portata».
Ieri, dopo la sentenza, ha detto «...spero che serva una rinonciliazione all’interno della nostra Chiesa». Ci sono davvero tante macerie?
«Non lo so. Di natura non serbo rancore. Se bisogna ricostruire insieme io sono disponibile. Non vedo ostacoli insuperabili. Credo che se c’è la buona volontà si può lavorare e ricucire tutti gli elementi di comunione».
Ha sentito l’Arcivescovo?
«L’ho chiamato subito dopo la sentenza. Era soddisfatto che tutto si fosse concluso senza lasciare ombre».
Ha mai ripensato a quel 2 aprile 2006?
«Sì, tantissime volte».