L’arcivescovo Buoncristiani: «Sacre Particole, è il prodigio di Siena»

Il pastore racconta insieme ai ricercatori del Cnr il mistero delle ostie

L'arcivescovo Buoncristiani (Foto Di Pietro)

L'arcivescovo Buoncristiani (Foto Di Pietro)

Siena, 3 ottobre 2015 - LA CITTA’ potrebbe economicamente ripartire (anche) da qui. Da un frammento di storia dal così grande significato: le Sacre Particole. Quel «fatto prodigioso» – così ama definirlo l’arcivescovo di Siena Antonio Buoncristiani – che la scienza non sa ad oggi spiegare. Ma che è ‘costretta’ a certificare, anche alla luce delle tecnologie più sofisticate: si tratta di pane azzimo. Non scalfito da muffe e dal trascorrere degli anni. Dei secoli. Chiunque può osservarlo in San Francesco. Così semplice ed essenziale, quella manciata di ostie. Eppure foriere di un messaggio incredibilmente forte. Da qui la città potrebbe ripartire inserendo il prodigio – ieri al centro di una convegno nella chiesa della Santissima Annunziata al Santa Maria della Scala – in un circuito virtuoso che poggi sul turismo religioso, a Siena poco valorizzato nonostante i gioielli di cui dispone.

Bene inteso: nessuno ha accennato a questo aspetto raccontando le emozioni dell’ultima ricognizione sulle Sacre Particole. «L’arcivescovo era serio, è testimoniato dalle foto – ha scherzato frate Nicola, padre guardiano di San Francesco e rettore della basilica – la notte prima non aveva dormito». Monsignor Buoncristiani sorride e annuisce. Era consapevole che si trattava di un’operazione rischiosa. «Quando iniziammo il procedimento scossi il contenitore. Qualcuno sbiancò. Non le trattavo male – svela retroscena di quei momenti così delicati – volevo solo vedere se erano davvero nella quantità che si pensava». Movimento che le fece rifiorire. Ed apparvero come se si fossero risvegliate da un lungo sonno. A corredo delle parole tante foto. Che immortalano le fasi salienti della ricognizione, esposte in alcuni pannelli nella Santissima Annunziata. Ha ragione, monsignor Buoncristiani: «La loro storia è un’avventura». Rubate, poi ritrovate. Analizzate. Assaggiate per esaminarle quando ancora non esistevano i marchingegni della tecnologia. Ecco perché sono rimaste poco più di 200. Ne hanno passate di tutti i colori, quelle ostie. Furono persino tinte con la polvere celeste che la Polizia usava un tempo per rilevare le impronte digitali. Erano il 1951: il contenitore venne rubato e le Sacre Particole lasciate in un angolo del tabernacolo. All’epoca furono ripulite con una penna di pollo. Una ad una. «E adesso sono lì – ha aggiunto l’arcivescovo – e ci interrogano. Segno evidente della continuità della presenza del Signore in mezzo a noi. Personalmente ci ho visto una rassicurazione per ciò che facciamo. Agiamo e sembra che tutto finisca lì. Non è così». E se padre Nicola rilancia – «Ci siamo chiesti ‘Si può fare l’analisi all’Eucarestia? Fino a che punto arrivare?» –, è toccato fra gli altri all’ingegner Cristiano Riminesi del Cnr, ricercatore presso l’Istituto per la conservazione e valorizzazione dei beni culturali, raccontare il percorso rigorosamente scientifico. Lui ha guidato il pool che ha investigato, escludendo «segni di contaminazione biologica». Niente funghi. Insomma, in perfetto stato di conservazione. «La nostra preoccupazione era anche comprendere in quali condizioni ambientali le ostie si trovavano. Abbiamo così introdotto nella nicchia un misuratore di umidità per registrare le variazioni della temperatura. Il monitoraggio – svela – tuttora prosegue».