Trasformismo di ritorno

Sofia Ventura

L'ATTUALE legislatura ha visto il 24% dei parlamentari cambiare gruppo almeno una volta (openpolis.it). In diversi casi è stato anche attraversato il confine tra maggioranza e opposizione. Oggi la cronaca politica è concentrata su una forma particolare di questo movimento: il comportamento «responsabile» di parlamentari che dall’opposizione hanno deciso di sostenere in alcuni casi la maggioranza; su tutti spiccano Denis Verdini e i suoi diciannove senatori. La nuova «responsabilità» ha una legittimazione teorica, ripetuta da esponenti renziani: il governo accetta quei voti perché l’obiettivo è quello di far passare le riforme costituzionali. Ma Verdini sembra intenzionato a portare il suo gruppo a sostenere anche la politica fiscale del governo; non solo la Costituzione, dunque. E con una minoranza Pd sempre nervosa, chissà mai che quei voti non tornino utili. Ma tutto ciò significa governare usufruendo dell’antico «trasformismo», vera e propria modalità di funzionamento del sistema politico. La modalità trasformistica è l’antitesi dell’alternanza. Quell’alternanza, pur fragile e zoppicante, l’abbiamo conosciuta dal ’94 sino all’uscita di scena dell’ultimo governo Berlusconi.

AI TEMPI della Destra Storica molti sperarono di vederla nascere in Italia, ma la speranza si infranse sul trasformismo, appunto, della Sinistra. Allora l’alternanza non si produsse per la mancata strutturazione di grandi forze politiche. Oggi vediamo partiti che non riescono a trovare una coesione nemmeno in una versione «leggera», a controllare il reclutamento, a mobilitare dietro a una visione politica, a darsi regole condivise e disciplina di partito. Con diverse gradazioni, essi paiono in buona parte veicoli per personalismi, carriere e interessi. Inevitabilmente, allora, il governo – con le sue risorse – si trasforma in una calamita.

MA SE RENZI oggi fa del trasformismo (anche nella funzione di deterrente rispetto alla sua minoranza) uno strumento di governo, che cosa potrà accadere in futuro? Dopo le prossime elezione, magari con una maggioranza monocolore Pd, le cose cambieranno? Il Pd di oggi non è in molto diverso da quello dei micro-notabili descritto da Mauro Calise. La differenza è data dalla forza del leader, ma i piedi sono di argilla perché lo stesso leader è sceso a patti con potentati locali e ha rinunciato a dare una nuova struttura al partito. La sua scommessa è concentrata sul governo e la sua immagine. Ma stando così le cose, è tutt’altro che scontato che Renzi riesca alle prossime elezioni a costruire un gruppo parlamentare omogeneo.

SULLA composizione delle liste si scateneranno i gruppi di potere e i più disparati e interessati assalti al carro. Se a questo si aggiunge il restante panorama politico frammentato e fragile, appare probabile che le dinamiche trasformistiche continueranno a dominare, con una maggioranza meno coesa di quella che Renzi con l’ottimismo della volontà immagina di creare e sempre pronta ad accogliere nuovi venuti, con un esecutivo calamita che galleggia sui flutti di un sistema fluido e confuso e che forse, ancor più di oggi, immaginerà se stesso come l’unico punto di equilibrio di un sistema dove non servono destra e sinistra, dove non serve l’alternanza, ma un potere ben collocato e saldo al centro. Dove il governo è tutto, il resto seguirà. Forse.