Giovedì 18 Aprile 2024

Lesbo tra filo spinato e proteste, viaggio nel campo profughi

Un centro chiuso con i migranti ammassati in attesa del rimpatrio. L'Unhcr: "Migranti come detenuti". Così funziona l'accoglienza sull'isola greca dopo l'entrata in vigore dell'accordo Ue-Turchia

Lesbo, campo profughi di Moria

Lesbo, campo profughi di Moria

Mitilene (Isola di Lesbo), 2 maggio 2016 - Mura bianche alte quasi cinque metri, filo spinato, fari al neon, guardie ai cancelli, un fossato da un lato e la montagna alle spalle, il tutto circondato dal mare. E’ il campo profughi di Moria sull’isola di Lesbo in Grecia. Un luogo dove nessun migrante senza essere stato prima registrato e aver ottenuto un permesso può uscire, con tempi che arrivano fino ad un mese per ottenere il pass. Pass, sia ben chiaro, che permette solo di circolare sull’isola. In molti non esitano a definire Moria un campo di detenzione per i migranti, come Medici Senza Frontiere, che ha deciso di sospendere ogni attività all’interno del campo in segno di protesta, e gli stessi abitanti dell’isola.

Boris Chershirkov, portavoce dell’Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) spiega che attualmente a Moria ci sono 3300 migranti quando in realtà la struttura ne può ospitare non più di 2000. Un sovraffollamento che sta causano seri problemi come la rivolta scoppiata il 26 aprile, in cui un gruppo di profughi (parecchi dei quali minorenni) hanno tentato di forzare i cancelli al grido di ‘freedom, freedom’. In quel caso le forze dell’ordine all’interno del campo sono intervenute con gas lacrimogeni e in base a un video girato da un profugo anche con l’uso della violenza.

Dei 3300 profughi rinchiusi nel campo 1000 sono minorenni di cui 200 completamente soli afferma Sacha Myers, portavoce di Save the Children in Grecia. “Abbiamo sospeso i nostri servizi di base, tra cui la distribuzione di cibo e il trasporto per il centro quando il campo di Moria è stato trasformato in una struttura chiusa– sottolinea la portavoce - perché non vogliamo sostenere la detenzione dei bambini e delle loro famiglie. All’interno del campo abbiamo mantenuto le nostre attività di protezione dell'infanzia in modo da poter monitorare la sicurezza dei bambini”. “Molti bambini a causa del sovraffollamento – continua Sacha Myers - e del deterioramento delle condizioni igieniche del campo si stanno ammalando. Febbre alta e infezioni polmonari sono in aumento. Inoltre siamo molto preoccupati per la loro sicurezza, casi di violenza e proteste sono all’ordine del giorno”.

Ma per capire come si è arrivati a questa situazione bisogna fare un passo indietro e tornare al 20 marzo, data in cui è entrato in vigore l’accordo Ue-Turchia. Prima di quella data il campo di Moria funzionava come uno dei tanti Hotspots (come vengono definite le aree con il maggior flusso di migranti) dove i profughi venivano accolti, assistiti e registrati, per ottenere un ‘lasciapassare’ e proseguire la loro marcia verso la Macedonia. Dopo quella data e il blocco della frontiera greca il campo è stato trasformato in un centro chiuso per la registrazione e l’accoglienza temporanea. Con i profughi ammassati in attesa di essere rimpatriati in Turchia (tranne quelli eleggibili di protezione internazionale, secondo quanto definito dall’accordo) e di un foglio che gli permetta di circolare sull'isola.

“Bisogna intervenire per aiutare la Grecia nell’accelerare il più possibile le procedure per i richiedenti asilo – spiega Boris Chershirkov di Unhcr – in modo tale da tenere il minor tempo possibile i rifugiati in uno stato di detenzione, il che significa una condivisione delle responsabilità tra gli Stati membri dell’Ue per un maggiore sostegno”. Attualmente a Lesbo non si assiste al dramma umanitario consumatosi lungo tutto l’arco del 2015 e fino a febbraio 2016, con punte di 10mila migranti sbarcati in un giorno. “Ma sull’isola, anche se con meno intensità dalla data dell’accordo, continuano ad arrivare i gommoni: dal 20 marzo fino ad oggi infatti sono arrivati 4000 migranti”.

Per fortuna a Lesbo non esiste solo il campo profughi di ‘detenzione’ di Moria, ma anche un’altra realtà quella di Kara Tepé dove i migranti sono liberi di entrare e uscire come e quando vogliono. A differenza di Moria che è a gestione governativa, Kara Tepé è un campo gestito dalle autorità locali, con una struttura totalmente aperta, senza fili spinati, mura e recinti, che affaccia sul mar Egeo. Qui vengono assistiti i cosiddetti soggetti ‘vulnerabili’ subito dopo essere stati registrati al campo di Moria, come donne incinte e famiglie con bimbi piccoli. Ma il campo ha una capienza limita. Attualmente accoglie 1000 migranti nonostante la sua capacità sia solo di 500.

Uno dei soggetti ‘vulnerabili’ di Kara Tepé è Ahmet Samir Nagi, 45 anni iracheno, due figli piccoli di 7 e 10 anni. Samir al tempo di Saddam era un militare, precisamente una guardia di sicurezza dell’ex dittatore. Caduto Saddam le milizie sciite iniziarono a dargli la caccia, così iniziò a fuggire di quartiere in quartiere a Baghdad fino quando non perse sua moglie a causa di un’esplosione, allora la scelta di prendere i suoi figli attraversare tutto l’Iraq e la Turchia e portarli in un posto sicuro pagando un trafficante di essere umani. Trafficanti spiega Haisham, altro rifugiato ma siriano, che adesso si fanno pubblicità anche su Facebook. Per distinguere i ‘residenti’ del campo profughi di Moria da quelli di Kara Tepé viene assegnato un braccialetto di colore diverso. “Questo perché - spiega un profugo di Kara Tepé - i migranti ‘detenuti’ a Moria una volta ottenuto il pass per uscire cercano di venire a vivere qui”.