«Nell’inferno dell’Heysel mentre crollava la curva con il povero Bruno Balli»

Il ricordo del giornalista sugli spalti dello stadio DI PIERO GHERARDESCHI

La tragedia dell'Heysel in uno scatto di quella tragica sera

La tragedia dell'Heysel in uno scatto di quella tragica sera

di PIERO GHERARDESCHI

Prato, 29 maggio 2015 - La Grand Place, alla prime luci di un’alba di sole e di freddo come se ne trovano ancora a fine maggio nelle città del nord Europa, fu l’inquietante biglietto da visita di quanto sarebbe successo solo qualche ora più tardi, nella sera di quel terribile 29 maggio di trent’anni fa. Gli hooligans l’avevano trasformata, nella notte, in un campo di battaglia: non c’era traccia di un solo negozio storico sfuggito alla furia degli assalitori. Il cuore fiorito di Bruxelles, là dove il «tapis de fleurs» si fa bella mostra al mondo, sconvolto e violato per ore.

A Bruxelles eravamo arrivati con una gita organizzata dalla Cap Express il giorno precedente, ma quel risveglio fu per tutti un terribile presagio, che si saldava, minaccioso, con quanto, la sera prima, da tifosi curiosi, avevamo visto, andando a visitare anche solo dall’esterno lo stadio Heysel. Fermata della metro a due passi dall’Atomium, il gigantesco monumento dedicato alla scienza, un quarto d’ora di passeggiata e, infossato, quasi fosse una conca, apparve lo stadio dove si sarebbe giocata la finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e Liverpool. Ingressi alti e stretti, scortati da transenne mobili, segnalavano quella che il giorno dopo sarebbe diventata la porta dell’Inferno.

Ore prima dell’inizio della partita mi ritrovai prigioniero, davanti allo stadio, in una fila interminabile che la polizia a cavallo cercava alla meglio di gestire: quelle transenne, che avevo visto la sera prima, non c’erano più. Gli hooligans, asserragliati dal mattino intorno allo stadio, le avevano volate lontano colpendo senza pietà mezzi pubblici, auto di passaggio e cittadini inconsapevoli di quella follia collettiva.

Settore M. Stretto in una mano, quasi fosse una reliquia laica, il biglietto d’ingresso. Finalmente anch’io arrivai davanti a quella porta piccola e stretta. Due passi ed ero nello stadio. E fu subito una sensazione terribile e indimenticabile: la curva non aveva né segnaposti né uno spazio per stare seduti. I gradoni in terra battuta erano maldestramente sorretti da pietre instabili, ma niente assomigliava, guardandomi intorno, ad uno impianto in grado di ospitare una finale così importante. Per fortuna il settore M, come l’N e l’O, che gli scorrevano vicini, era occupato dal tifo organizzato della Juventus. Ma alzando lo sguardo, poco prima che tutto cominciasse, si parò davanti, quella che non poteva che essere una follia: una curva spaccata in due con hooligans e tifosi juventini divisi soltanto da una rete metallica alta non più di un metro.

Un’ora prima dell’inizio della partita, dal settore dei tifosi inglesi (ma come si fa a chiamarli così anche trent’anni dopo?), come proiettili, cominciai a veder lanciare bottiglie, bastoni e perfino sassi che quelle tribune, sciaguratamente generose, ti lasciavano a portata di mano, solo entrando nello stadio. Fu così che, per ripararsi, i supporters bianconeri indietreggiarono fin quasi ad ammassarsi lungo l’ultimo muro di recinzione. Ma non bastò: quelle belve, avvolte nei colori del Liverpool, decisero che non doveva finire così: si vide chiaramente partire, improvvisa, una carica di barbari che travolse quelle reti da pollaio, che dividevano la curva Z dalla Y. Una furia che si abbatté sui tifosi juventini, prigionieri in quell’angolo di stadio dove avevano sperato di trovare riparo.

Spettatore impietrito ma non del tutto consapevole di quanto stava accadendo davvero. Dalla curva opposta si continuava a vedere gente che dalla tribuna saltava sulla pista d’atletica, mentre quel muro, ultimo baluardo di una salvezza impossibile, crollò (ma lo si capì solo dopo) sotto la pressione di chi voleva mettersi in salvo ma finiva solo per schiacciare altra gente. Lì persero la vita in 39. Fra loro 32 italiani. Lì morì Bruno Balli, cinquant’ anni, pratese, e un sogno finito nel sangue.

A trent’anni di distanza può apparire incredibile ma per me, come per chi era nel mio stesso settore dell’Heysel, sul momento, fu difficile solo immaginare quale fosse la dimensione esatta di quanto si era consumato solo ad un centinaio di metri dai nostri occhi. Capimmo, quello sì, che la gara si era giocata solo per evitare qualcosa di ancora più grave.

Solo le sirene assordanti delle ambulanze, appena uscito da uno stadio che, invece, si era fatto, improvvisamente silenzioso, furono la terribile colonna sonora di quello che, fatti pochi passi fuori dallo stadio, mi si parò davanti squarciando anche l’ultimo velo su una tragica verità. Nel piazzale di fronte all’ingresso principale dell’Heysel, mi apparve un vero e proprio ospedale da campo messo su durante i 90 minuti di una partita surreale.

Lì avevano radunato i morti e una parte dei 600 feriti. Li cominciammo a cercare gli amici e i compagni di gita. Da li, da quei bar che si erano trasformati in piccole sale di improvvisati pronto soccorso, provai a mettermi in contatto con la famiglia e con il giornale. Ma lì, io come molti altri, lasciammo per sempre, a vegliare quei corpi senza vita, la gioia fanciullesca che fino ad allora mi aveva dato una partita di calcio.