Prato, 15 dicembre 2011 - "Noi non siamo così, io non ho mai conosciuto un lao ban come quello del film e condizioni di lavoro simili”. A veder rappresentato sullo schermo un “boss” cinese, di quelli che ti portano in Italia e poi ti tengono a lavorare senza troppe chiacchiere fino a che tu non ripaghi il debito (e allora il premio è il ricongiungimento familiare con i figli ancora piccoli lasciati a casa dai nonni), la comunità cinese ha un sobbalzo d’orgoglio.

 

La scena è al Terminale, martedì sera, durante la proiezione del film “Io sono Li” di Andrea Segre: la storia di un’amicizia profonda tra Li, una cinese arrivata da un laboratorio tessile della periferia romana a Chioggia per lavorare in attesa di pagare il volo in Italia per il figlioletto, e Bepi, un pescatore di origine slava. Amicizia ostacolata da entrambe le comunità, quella italiana perché non la capisce e la banalizza, quella cinese perché “non conviene”: e il prezzo per lo sgarro è spropositato.

 

Una giovane cinese in sala si alza e prende la parola: “Il film mi è piaciuto molto, ma se il boss fosse stato italiano invece che cinese mi sarebbe piaciuto di più. Forse esistono lao ban come quello, ma io non ne ho mai conosciuti”. E un’altra giovane dagli occhi a mandorla: “Io abito a Roma, nella stessa zona in cui il film è girato: ma di laboratori come quello non ne ho mai visti, dove sono?”.

 

Replica il regista: “Quella figura non è inventata: l’ho studiata sia su testi accademici, poi l’ho verificata nell’esperienza reale della periferia romana dove vivo e dove posso indicare tanti laboratori e storie simili a quella che ho raccontato”. La morale della serata moderata dal giornalista Dario Di Vico, organizzata dalla Provincia di Prato e partecipata da un numero visibile di cittadini orientali, è difficile da trarre: ma un confronto e una riflessione interculturale ci sono stati, stimolati dal film sullo schermo e aiutati da Shi Yang, interprete cinese che all’inizio del dibattito si è unito al parterre dei relatori: “Vengo a farvi da traduttore – ha spiegato evidenziando l’ostacolo fondamentale della lingua - altrimenti i cinesi in sala non possono parlare e il dibattito sull’integrazione lo fate tra di voi”.

 

E se da una parte vedere sullo schermo ciò che accade nella realtà non piace alla comunità cinese, dall’altra, come osserva l’assessore Edoardo Nesi riferendosi alla sorta di “ricatto” a cui la giovane cinese deve sottostare, “per la prima volta vedere rappresentato ciò di cui abbiamo sempre solo sentito parlare ci fa scoprire dalla parte della madre cinese: il film ha fatto da ponte culturale”.