Contavamo i vagoni del relitto che usciva dalla galleria

La testimonianza di Piero Ceccatelli, caposervizio della Nazione di Prato

Piero Ceccatelli

Piero Ceccatelli

Prato, 19 dicembre 2014 - Cominciava ad albeggiare quando dalla pensilina della stazione di San Benedetto Val di Sambro udimmo un rumore dalla galleria. Da tenue, il rumore si faceva intenso, finché nel buco nero aperto nella montagna spuntarono le luci rotonde dei fari. Eravamo un centinaio, fra cronisti, inviati, fotografi, cineoperatori come si chiamavano all'epoca, agenti e carabinieri, personale delle Ferrovie e semplici residenti del posto. Un centinaio di sopravvissuti, della folla in divisa e lampeggianti sulle auto di ordinanza, di tecnici e autisti sui furgoni attrezzati della Rai, che verso le due si era improvvisamente squagliata.

Le luci che si facevano sempre più grandi nella galleria, concentrarono l'attenzione di noi, rimbambiti dal freddo e dal sonno. E dall'emozione. Sulla stazione caló il silenzio, tutti rivolti verso quei fari che crescevano di dimensione e intensità al ritmo lentissimo con cui il cielo natalizio si faceva da nero a grigio latteo. Col passo di un uomo che cammina, il locomotore di emergenza trascinava il relitto del treno. L'atmosfera fu quasi teatrale. Contavamo i vagoni domandandoci se sarebbero usciti anche quelli sventrati dalla bomba. Chiedendoci se piuttosto li avessero lasciati lì, estraendo quelli di coda dalla parte di Vernio. Dubbi inconcepibili oggi, normali in una notte di ghiaccio fra le montagne , quando non esistevano cellulari né internet. Trattenevano il respiro, i fotografi s'inginocchiavano dirigendo i teleobiettivi verso la galleria per ripararsi dal vento. O forse s'inginocchiavano e basta e loro almeno avevano una scusa.

Contavamo i vagoni in quello stillicidio di vetture intatte. Quelle dei passeggeri che al massimo avevano perso una valigia, un cappotto, un pacco dono rimasti a bordo e se l'erano cavata con uno spavento che non li avrebbe mai più lasciati. Aspettavamo con gli occhi umidi, le lacrime che diventavano ghiaccio sulle gote arrossate. Ma non era il freddo. Piangevamo. Piangevo. Quando fu il momento, apparve lo squarcio, il buco immenso in mezzo al treno e proprio allora il sole rese chiaro quello che stavamo vedendo. Il treno fu arrestato sul binario più lontano dalla pensilina. Subito presidiato, custodito, inchiavardato nell'eterno segreto dei sigilli di una Strage di Stato. Ci precipitavamo ai telefoni per chiamare a casa i colleghi, certi che le redazioni erano chiuse per l'orario ma non perché era ormai la vigilia di Natale. I giornali non osservarono la festa comandata. Uscirono eccezionalmente la mattina di Natale.

Gli inviati erano ribelli all'idea di passare la festa lontani dalle famiglie, fra lì e Bologna dove risiedono i magistrati competenti su quella strage accaduta nelle viscere dell'Appennino fra Emilia e Toscana e scoperta emiliana per poche centinaia di metri. Ero salito a San Benedetto Val di Sambro sulla Fiat uno verde metallizzata di Fabrizio Rizzi, inviato di punta del Messaggero che avevo conosciuto verso le nove al pronto soccorso del Misericordia e Dolce dove stavo verificando se fossero stati ricoverati feriti. Ma non arrivò nessuno. C'erano invece molti medici precettati. Rizzi mi disse: cosa fai qui? Vieni con me.

Gli feci da guida sulla 325 fino a San Benedetto. Il suo giornale lo trattenne a Bologna. Non mi avrebbe riaccompagnato a Prato. Anche Nedo Coppini non sapeva come rientrare. Lavoravamo per testate diverse, cercammo un passaggio insieme. Lo trovammo dal più intraprendente, più pazzo e più bravo di tutti noi, il fotografo Massimo Sestini, di Firenze. Con la sua Mini 90 bianca dribbló molte auto e tir sull'Autosole cosparsa di sale antighiaccio. Gli chiedemmo se davvero nella notte, quando lui era scomparso per due ore alla vista dei colleghi, fosse riuscito a entrare il galleria, a raggiungere il treno sventrato, a scattare foto. La voce si era diffusa sulla pensilina a notte fonda. Massimo continuó a guidare come forse si guida solo un ottovolante alla fiera. E non ci rispose.