Martedì 23 Aprile 2024

Strage Rapido 904, è il turno di tre collaboratori di giustizia

L'unico imputato, Totò Riina, in videoconferenza dal carcere di Parma / LO SPECIALE: FOTO, VIDEO E TESTIMONIANZE A 30 ANNI DALLA TRAGEDIA / STRAGE RAPIDO 904: BRUSCA DEPONE AL PROCESSO

La testimonianza di Giovanni Brusca al processo per la strage 904 (LaPresse)

La testimonianza di Giovanni Brusca al processo per la strage 904 (LaPresse)

Firenze, 27 gennaio 2015 - Sono stati i tre collaboratori di giustizia, Leonardo Messina, Giuseppe Marchese e Gaspare Mutolo, che hanno deposto questa mattina davanti alla Corte d'Assise di Firenze, durante la quinta udienza del processo per la strage del Rapido 904. Unico imputato come mandante della strage, il boss di Cosa Nostra Totò Riina, in videoconferenza dal carcere di Parma dove è detenuto.

"Molti attentati erano stati rivendicati da 'falange armata', ma a me fu detto che falange armata non esisteva, era Cosa Nostra. 'Falange armata' era un'espressione che usava Cosa Nostra, per creare terrore", ha detto Leonardo Messina. Alla domanda dell'avvocato Danilo Ammannato, difensore dell'associazione familiari delle vittime, se Messina fosse a conoscenza di chi fosse il mandante della strage del Rapido 904, il pentito ha risposto: "Ho saputo che Cosa Nostra, tramite la 'falange armata', rivendicava l'attentato. Ma era stata Cosa Nostra". Incalzato dall'avvocato Luca Cianferoni, in videoconferenza perché oggi è vicino al suo assistito, Totò Riina, nel carcere di Parma, Messina ha ribadito: "Falange armata è una sigla che non è niente. Si diceva che c'erano i terroristi. Ma non è vero, era Cosa Nostra. Siamo nel 1985". Messina ha poi proseguito: "Tutti ci aspettavamo che prima o poi Giovanni Falcone fosse ucciso. Nel 1988 Giovanni Brusca mi disse che non potevamo fare di quest'uomo un martire. Però che lo guardavano a vista". Proseguendo nel racconto sulle parole che Brusca gli disse su Giovanni Falcone, Messina ha ricordato che il boss gli confidò che "U' zi Toto' (Riina era così chiamato in Cosa Nostra, ndr) sa quel che fa. Non possiamo fare di questo uomo un martire. Sappiamo tutto di quest'uomo, ma aspettiamo quando conviene a Totò". Poteva Pippo Calò fare la strage del treno rapido 904 senza chiedere il permesso al suo capo Totò Riina? "Nessuno poteva ordinare un omicidio o una strage senza l'ordine della commissione» provinciale, «ci sono regole precise e il mandamento deve valutare se uno deve morire oppure no. Per una strage così serve l'ordine della commissione". 

"Un segnale da dare a chi di dovere". Così definisce la strage il collaboratore di giustizia Giuseppe Marchese, il secondo dei teste a deporre. "In ogni omicidio o strage c'è sempre una strategia - ha spiegato Marchese, interrogato dalla pm Pietroiusti - magari in rapporto ai processi per cercare di aggiustarli oppure per ammorbidire qualcosa di politico". Anche Marchese, come in precedenza altri testimoni al processo, ha ribadito che la strage non fu decisa dal solo boss Pippo Calò. "Una cosa così eclatante - ha spiegato il pentito - non la può decidere solo Pippo Calò, ma deve essere decisa dalla commissione di Cosa Nostra".

"Mi sono convinto che Riina aveva a che fare con la strage del treno quando i mafiosi decisero di mettere una bomba in un'auto a Roma per tentare di uccidere un centinaio di poliziotti". Così il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, riferendosi al fallito attentato allo stadio Olimpico del 1993, racconta durante la sua deposizione in aula bunker a Firenze. "Prima ero convinto che la mafia mai avrebbe fatto un attentato su un treno - ha spiegato Mutolo - ma dopo le stragi del '92-93 mi sono convinto che del fatto che anche la strage del 1984 era stata voluta da Riina. Gli altri seguivano i suoi ordini perché avevano paura". Mutolo ha poi affermato che "i mafiosi, per depistare le indagini, si camuffavano. Anche da falange armata", rispondendo ad un aspetto che già, durante le scorse deposizioni della mattinata, era stato descritto. L'avvocato Luca Cianferoni, legale difensore di Totò Riina, in carcere a Parma vicino al suo assistito, ha pià volte fatto opposizione, in videoconferenza, alle domande della pubblico ministero Angela Pietroiusti, chiedendo di attenersi al tema del processo. "La mafia era diventata di Totò Riina - ha proseguito Mutolo -, con lui i Corleonesi persero la ragione umana. Nel 1984 il comando della mafia era di Riina e dei Corleonesi". Mutolo ha precisato che le sue sono deduzioni. "Prima ero convinto che la mafia mai avrebbe fatto un attentato su un treno, ci potevano essere donne e bambini che la 'vecchia' mafia non toccava. Ma dopo le stragi del 1992-93 mi sono convinto del fatto che anche la strage del 1984 era stata voluta da Riina. Gli altri seguivano i suoi ordini perché avevano paura, prima o poi faceva uccidere chi lo contraddiceva. Riina aveva deciso di portare la guerra contro lo Stato e contro le antiche regole di Cosa nostra, anche per questo decisi, parlando col giudice Vigna, di collaborare con la giustizia".

Sul treno che da Napoli era diretto a Milano il 23 dicembre 1984, morirono 17 persone e 267 rimasero ferite; la bomba fu fatta esplodere nella grande galleria dell'Appennino, fra Vernio (Prato) e San Benedetto Val di Sambro (Bologna). Il pubblico ministero Angela Pietroiusti interrogherà i tre collaboratori, che si avvicendano in aula e che depongono coperti da due ampi paravento.

MESSINA SUI POSSIBILI CONTATTI TRA MAFIA E APPARATI DELLO STATO - "Ci sono sempre stati rapporti tra noi della mafia e uomini dello Stato", racconta il collaboratore di giustizia Leonardo Messina al processo, "per esempio mi ricordo che negli anni '80 ci fu il caso delle 23 mitragliette rubate alla questura di Varese. Venne da me, ed ero in un paesino, una donna, che noi sapevamo dei servizi segreti, a trattare per lo Stato. Ci venne detto che rivolevano queste armi, erano gli anni del terrorismo". Questa la risposta di Messina alla domanda su possibili contatti tra mafia e apparati dello Stato. Il furto di mitragliette e anche di sei pistole dall'armeria della questura, in effetti, ci fu nel 1987, poi le indagini stabilirono che le armi dovevano andare alla malavita siciliana. Le mitragliette furono recuperate in Lombardia e un processo condannò sei persone, fra cui un agente della questura lombarda. "La mafia - ha spiegato il pentito Messina - all'epoca è come se avesse detto: 'Okay, Stato, vi stanno attaccando i terroristi. Se volete un aiuto, gli dicevamo, la mafia è un'organizzazione...'". "Inoltre dentro la mafia non potevano esserci i comunisti, eravamo anticomunisti", ha aggiunto Messina, "il terrorismo da noi in Sicilia non poteva esserci ma nel resto d'Italia preoccupava". Sollecitato dalle parti, sempre riguardo all'episodio sulla presenza in Lombardia di famiglie mafiose, Messina ha detto che "una si trasferì a Busto Arsizio quando scoppiò la guerra tra famiglie a Gela (Caltanissetta). Per non stare a farsi ammazzare, si spostarono al Nord".