Malaparte, 60 anni dalla morte. Da Fanfani a Togliatti, l’Italia al suo capezzale

Il feretro arrivò a Prato da Roma: al casello una folla ad aspettarlo

Il francobollo commemorativo, con il ritratto dal letto dell’ospedale (Archivio Biblioteca di via del Senato)

Il francobollo commemorativo, con il ritratto dal letto dell’ospedale (Archivio Biblioteca di via del Senato)

Prato, 19 luglio 2017 - Kurt Erich Suckert, noto a tutti come Curzio Malaparte, morì 60 anni fa, il 19 luglio 1957 a Roma. Era nato a Prato il 9 giugno 18989. Di lui è stato detto molto: corrispondente di guerra, autore di capolavori come Kaputt, La pelle e Maledetti toscani, fascista della prima ora e amico stretto di Togliatti dopo la guerra. Un grande non sempre apprezzato quanto avrebbe meritato.

Mai pratese fu tanto al centro della scena, quanto Curzio Malaparte nei mesi che precedettero la sua morte. La camera alla clinica Sanatrix di Roma in cui era ricoverato divenne un crocevia di incontri, di personaggi famosi e gente comune, un luogo di ritrovo sotto i riflettori costanti di un’Italia che ancora si informava con i quotidiani, la radio e le riviste. Malaparte volle un cronista tutto per sé, che raccontasse le sue ultime settimane. Era Franco Vegliani, giornalista del settimanale Tempo, di cui Curzio era ai tempi la firma più prestigiosa. Scrisse un libro dopo la sua morte: le memorie di quei giorni, un ritratto formidabile del grande pratese. Malaparte il titolo, Edizioni Guarnati, 1957. «Fu lui a chiamarmi. Aveva bisogno di un cronista senza pregiudizi. Di uno che senza essere un estraneo, non lo conoscesse. Sentiva che era la morte che conveniva alla sua vita: una morte lunga, che si potesse recitare e raccontare. E la recitò fino in fondo». Non poteva che morire così, Malaparte.

Curzio Malaparte a Roma, anni ’50 (Archivio Biblioteca di via del Senato)
Curzio Malaparte a Roma, anni ’50 (Archivio Biblioteca di via del Senato)

Vegliani ricorda ad esempio del 9 giugno, il giorno del suo ultimo compleanno, quando gli operai de L’Unità arrivarono in clinica vestiti di festa, con un mazzo di fiori e un fiocco rosso. A vigilare davanti alla porta della camera c’era un sottoufficiale, mandato dal ministro dell’Interno in persona, Fernando Tambroni. Malaparte stava dormendo e non furono fatti entrare. Al risveglio se la prese moltissimo; qualcuno pensò di cercare figuranti e per spacciarli per gli operai del quotidiano comunista. «In quei giorni la lotta politica attorno al letto di Malaparte era ancora in una fase acuta – scrive Vegliani –. Non si era ancora dichiarato, vedeva ugualmente Tambroni, Togliatti, Fanfani». La moglie di Fanfani gli portò perfino l’acqua da Lourdes.

Sulla mensola sotto la finestra della sua camera c’erano una riproduzione della Madonna della Cintola di Filippo Lippi, due leoni di porcellana cinesi, una mezzina di rame con lo stemma di Prato donata dal sindaco Giovannini, con dentro gli aghi dei pini di Galceti. Ma c’erano anche la preghiera di San Francesco regalatagli dal vescovo di Assisi, una statutuina di Santa Rita da Cascia mandatagli da un contadino, un cavallo in fil di ferro che era un dono di Edoardo De Filippo, una foto del papa Pio XII e una di Togliatti assieme a lui.

Togliatti più volte andò a trovare Malaparte e gli fece consegnare la tessera del Pci. Il giorno della sua morte fu proprio lui il primo ad arrivare, battendo sul tempo Fanfani. Non lo fecero entrare. Nel frattempo padre Rotondi ebbe modo di annunciare alla radio la conversione dello scrittore.

A Prato il feretro arrivò due giorni dopo all’alba e fu accolto in Palazzo comunale con tutti gli onori, prima del funerale in Duomo. Malaparte come la Cintola. Prima guardare tutto e tutti dall’alto, nel cielo di Spazzavento.