Caos calmo, i perché di un capolavoro

Lo scrittore e poeta pratese Gabriele Lastrucci analizza il capolavoro di Veronesi

Sandro Veronesi

Sandro Veronesi

Prato, 18 ottobre 2017 - Caos calmo, il capolavoro di Sandro Veronesi pubblicato per Bompiani nel 2005 (e vincitore, l'anno seguente, del premio Strega), al centro di un articolo-saggio del poeta e scrittore pratese Gabriele Lastrucci. Lo riportiamo integralmente qui di seguito.

Veronesi V/S Dostoevskij

Che cos'è un capolavoro? Da dove viene, come nasce, come si costruisce? E' più che ovvio che a queste domande non si possa rispondere con certezza, ma è anche altrettanto serio e necessario che si possa fruire di quegl'improvvisi lampi di senso che ci illuminano nella lettura di certe opere letterarie. Occorre rischiare una impossibile forzatura che ci permetta di guardare dallo strettissimo spiraglio della ragione critica senza che esso, lo spiraglio, laceri irrimediabilmente l'insondabile e oscuramente lampante velo di Mistero che ogni opera, soprattutto quella importante e necessaria, ci sbarra opportunamente davanti, come a sfidarci. Mentre leggevo Caos Calmo di Sandro Veronesi sono stato più volte aggredito da un'oscura forza lunare che quel testo inesorabilmente emanava ed emana, sono stato più volte a un passo da abbandonarla, quella lettura, che mi faceva così misteriosamente male, sono stato più volte... L'unica cosa che potevo fare per difendermi da questo sublime-nero attacco era tentare di organizzare un muro critico-culturale che impedisse a quella forza di violentarmi con la sua oscura luce. E così ho fatto, ma non mi sono salvato, grazie a Dio... Il primo lampo interpretativo che mi si è parato davanti è stato Dostoevskij e, per la precisione: I fratelli Karamazov. C'è qualcosa di archetipico nel romanzo di Veronesi che lo imparenta strettamente a quel colosso russo dell'Ottocento: Pietro Paladini ha in sé tutte le caratteristiche dei tre fratelli dostoevskijani: la bestiale, nonché in fondo innocente, brutalità di Mitja, il profondo, e per questo colpevole, intelletto di Ivan, la dolcezza e la bontà del piccolo Alesa; c'è anche, ad accomunare i due libri, come un fatale amuleto: la Morte che, anche se naturale, rende colpevole chi non soffre, o chi non soffre abbastanza; che dire, poi, di: Thierry-Smerdjakov-Boesson, e del Grande Inquisitore: Isaac Steiner?; ci sono, ancora, innumerevoli elementi mistici che avvicinano strettamente le due Opere: dall'Oracolo dei Radiohead al biblico Enoch, e soprattutto, il fatto che l'unico vero portatore di Verità e, forse, di Salvezza, sarà un bambino o, nel caso di Veronesi, la piccola Claudia...

L'aspetto Mistico-Spirituale, ovvero l'Estasi del Dolore

Un altro fulmine interpretativo può essere, ed è, la funzione estatico/salvifica del Dolore. Nel romanzo di Veronesi, come in fondo nella vita, il momento di dolore (anche nella sua innaturale assenza) ci avvicina molto di più a noi stessi e agli altri che non la gioia o la semplice e noiosa routine della mondanità. Esso (il Dolore) appare come una necessaria apertura verso il mondo, quello nostro (interiore-affettivo) e quello esterno: come l'unico varco possibile per penetrare la ferrea cortina di gelo quotidiano che ci separa da noi stessi e dai nostri affetti. Il momento stesso del dolore-verità è un feroce, bellissimo angelo, più che un paralizzante, oscuro demone. Non è un caso che Pietro decida che d'ora in poi sarà il “mondo” a cercarlo e a confessargli le proprie colpe, le proprie sofferenze. E' lui, forse, l'Oracolo a cui gli altri vanno a chiedere ed è il suo muto e freddo dolore (benché apparentemente assente) che lo pianta come una “pietra” sacra nel terreno spirituale della verità, della fecondità, dell'ascolto. C'è poi, come potente sottostrato narrativo, la visione mistica della struttura aziendale di cui Pietro e molti personaggi fanno parte (il Videogioco, come lo chiama Pietro), una struttura metafisica che rimanda alle creature-stato orwelliane, non meno che alle loro realizzazioni cinematografiche fatte da Terry Gilliam (Brazil), oltre che da Fritz Lang nel suo capolavoro Metropolis del 1927. Caos Calmo, dunque, oltre che un libro umanamente tragico, è un libro profondamentematerialmente mistico.

La lingua. Da Pasolini e Malaparte verso Raymond Carver

La lingua che usa l'autore, o da cui l'autore è usato (dato che la vera opera d'arte ha un'anima propria, un proprio destino) si è affilata come una splendente Katana attraverso una miriade di letture che Veronesi ha fatto nel corso della sua vita. Alcune note, tuttavia, sono più marcate di altre e danno un sapore vero e meravigliosamente animalesco al suo potente dettato. Lungi dall'avere la plasticamente rigida classicità di un Pavese o di un Moravia, la lingua dello scrittore pratese affonda le proprie radici in quello che è il nucleo magmatico dello sperimentalismo italiano (e non solo): essa pare sorgere, come un martello infuocato, dalle pagine più ispirate del miglior Pasolini, essa ha l'ampiezza e la strutturata complessità delle migliori prose buzzatiane, attraversa come un maglio le violenze verbali di Beppe Fenoglio e, non per ultimo, ha nel sangue la toscana, ruvida, dantesca incisività del suo grandioso conterraneo: Malaparte. Tuttavia è impossibile non riconoscere nella sua lingua un forte sapore nordamericano: che, partendo dalla ferrosità letteraria di London, attraversa tutto il novecento per approdare, come uscita dalla poderosa fucina di un fabbro del Nebraska: al suo amato Pynchon, a D. F. Wallace, e, soprattutto ai capolavori di Raymond Carver: Vuoi star zitta per favore? ne è l'esempio più lampante. Opera immortalata mirabilmente dal grande Robert Altman in America Oggi. Proprio come sarà fatto un memorabile film su Caos Calmo di Veronesi nel quale toccherà al grande Moretti interpretare la difficile parte di Pietro Paladini. (Lo stesso Moretti che riuscirà a fare, negli stessi anni, uno straordinario e profondissimo film su Berlusconi – Il Caimano – e sul berlusconismo in Italia, fatto che richiama la felicissima battuta di Paladini che pensa a Berlusconi per farsi passare una clamorosa, quanto inopportuna erezione). Sembra uscita da un racconto di Carver, inoltre, quello spettacolare personaggio che è la fidanzata del saturnino Piquet: che lo insulta senza poi rendersene conto, come se a offenderlo fosse il suo stesso inconscio finalmente e grandiosamente privo di veli o filtri. (Non si può dimenticare che di lì a pochi anni Veronesi avrebbe scritto uno dei più importanti e innovativi capitoli della letteratura italiana con il suo stupendo racconto Profezia, contenuto nella raccolta Baci Scagliati Altrove. Un racconto, appunto, genere che ha un'altissima e secolare tradizione nel mondo letterario – basti pensare a Cechov, a Kafka, a Borges, a Cortazar e, appunto, a Carver – e che sta avendo in Italia, purtroppo, una crisi di lettori, di editori, e di autori, pazzesca. Crisi grave quasi quanto quella che riguarda la quasi morte della poesia, in quanto a lettori, almeno). E tuttavia nulla di tutto ciò influisce o determina in modo mimetico la nascita e la formazione linguistica di Veronesi e di Caos Calmo. Il grande scrittore sa che prima di ogni altra cosa, per diventare se stessi, occorre dimenticare. Liberarsi del beato fardello del prima, essere influenzati da tutto per poi rifiutare e superare questo tutto, e rimanere soli, nel deserto, come fecero i Padri, ad ascoltare il silenzio fecondo della propria voce. Ecco da dove viene la lingua di Veronesi: da sé e per sé, nella buia notte albina dell'Io: nel fuoco, nel vuoto, nel vento...

La salvezza è solo dei pazzi e/o dei bambini

Un'altra prossimità, fratellanza con il capolavoro di Dostoevskij è data dal fatto che l'unica salvezza o redenzione o catarsi possibile per l'umanità possa arrivare soltanto dai pazzi o dai bambini. Ci sono entrambe le figure sia nell'uno che nell'altro libro ma, limitandosi a ricordare quelle del nostro scrittore, possiamo indicare, con una certa e voluta rarefazione e approssimazione che l'una, il Pazzo-Innocente è, in Veronesi, la sorella della moglie scomparsa, cioè la bellissima e purissima Marta, uno dei personaggi più straordinari del libro, e l'altra, naturalmente, è la figlia Claudia. Decisivo e memorabile angelo di salvezza sarà anche il geniale figlio di Piquet che, per ribellarsi all'insensatezza dei grandi (genitori compresi), ha deciso (e qui si aprono suggestivi scenari beckettiani: autore non a caso citato nell'incipit del libro) di contare all'infinito. Soltanto da loro Pietro, e con lui il Mondo, potrà essere salvato, forse...

Una certa critica progressista

Una certa critica superficialmente progressista potrebbe attaccare il libro di Veronesi dicendo che i suoi personaggi sono dei privilegiati, che la loro sofferenza è una sofferenza da ricchi, falsa, che le loro inutili lacrime neanche lambiscono le debordanti e sanguinose rive delle sofferenze umane, quelle materiali, quelle vere: la fame, la povertà, la malattia ecc. Queste critiche, purtroppo, sono toccate anche a tanti capolavori del nostro Novecento: a Carlo Levi, a Giuseppe Berto e in parte, allo stesso Calvino. E' quasi pleonastico ricordare le infinite e, spesso, deliberatamente faziose guerriglie che Curzio Malaparte ha dovuto (e, forse, anche, voluto) affrontare a causa dei suoi libri e, soprattutto, per via di quel grande e rivoluzionario romanzo che è La pelle. Anche il Partigiano Johnny non era abbastanza partigiano per alcuni instancabili censori della libertà espressiva e morale dell'epoca. Non voglio dilungarmi molto su questo punto, anche perché la stessa critica marxista che attaccava Cristo si è fermato a Eboli per mancanza di una seria indagine socio-materialista o Il male oscuro poiché frutto di uno scrittore politicamente disimpegnato (anarchico, per l'esattezza), o La pelle per il suo immenso furore espressivo (privo di inutili derive moralistiche), tentava di distruggere e polverizzare capolavori come il Viaggio al termine della notte celiniano per i motivi esattamente opposti. Un libro, come un'opera d'arte, ha il solo dovere di essere vero, alto, profondo, bello, potente, nuovo, universale ecc. e non, o non solo, moralmente o politicamente impegnato. Alla grande causa del dolore umano reca certamente più vantaggio una Tragedia greca qualsiasi che non tutti i libri di Gorky messi insieme... Nessuno, oggi, si sognerebbe di attaccare Tolstoj perché i suoi personaggi sono Principi o Capi di Stato. Inoltre, se mai ce ne fosse bisogno, la classe borghese mondiale, e quella italiana in particolare, negli ultimi trenta anni è stata falcidiata e distrutta da governi alternativamente di destra e/o di sinistra in un modo quasi sistematico. Così come nessuno potrebbe accusare Orson Welles perché il protagonista di Quarto Potere è un magnate delle comunicazioni. Senza nulla togliere a Ladri di biciclette dell'enorme De Sica. Il dolore è dolore, sia che lo provi un principe sia che lo provi un povero barbone... Il dolore, come l'amore e la morte, molto democraticamente, è di tutti. Un grande libro, come quello di Veronesi, non ha bisogno di essere politicamente corretto... ammesso poi che questa espressione, oggi, abbia ancora un senso chiaro e distinto.

L'Oracolo Delfico dei Radiohead

Ad avvicinare l'opera di Veronesi alla grecità nella sua essenza più alta, c'è poi il geniale adattamento dell'Oracolo delfico (molto vicino, seppure in un modo assolutamente unico e originale, alla folle bellezza e saggezza della Pizia di Durrenmatt) che, attraverso le canzoni dei Radiohead, guida le azioni di Pietro in un modo oscuro e ipnotico, per quanto luminoso... Ma l'Oracolo, seppur con tutte le imperfezioni del caso, diviene piano piano Pietro stesso che, moralmente temprato dal proprio dolore (che, si badi bene, non c'è e non dà alcun segno di una sua improvvisa rivelazione) raccoglie le sparute confessioni dei mortali che lo avvicinano entrando nel suo privato e primitivo e lucente ventre di balena (si veda Giona, ancora un riferimento biblico e Pinocchio, naturalmente): dove Pietro si è isolato per trovare quel senso vitale che a tutti noi, compreso a lui, sfugge. Ancora una volta, tuttavia, l'Oracolo ha bisogno dei pazzi e dei bambini per essere salvato (il Cd dei Radiohead glielo ha masterizzato Marta e sarà infine Claudia a liberarlo...).

Enoch, Giobbe e la sofferenza del giusto

Un altro esplicito riferimento biblico è dato dalla bellissima figura del suo collega di lavoro Enoch (responsabile delle risorse umane) che, dopo una lunga e sofferta meditazione sulla fusione finanziaria in atto nell'azienda dove i due lavorano, scrive un lungo e criptico documento sulla questione (un documento che ricorda in qualche modo la simbolica percezione kafkiana del Mondo: intesa nella sua incomprensibilità) il quale termina con una violenta bestemmia. Lui, dotato di una spiritualità marcata e osservante. Lui, che ha come unico desiderio quello di essere una persona perbene. Lui, la cui bontà raggiunge il più alto livello possibile per un essere umano. Proprio Lui... Ecco che la visione di Veronesi si fa via via più ampia, si complica e si approfondisce... Enoch, attraverso il violento rovesciamento di se stesso, si libera dalla catena della volgare ambizione e trova l'estasi. La sua Bestemmia, come quelle del Giobbe biblico, ha più fede dei discorsi razionali e ragionevoli di chi lo circonda... E' lui l'eroe, non io, dirà Pietro alla fine del libro... Così come sarà di Enoch la scintillante visione mistica che metterà a nudo tutta l'inutile e machiavellica corsa al Potere fatta dai personaggi più negativi, anche se profondamente umani nella loro vanità: ovvero alcuni dei superiori di Pietro stesso... Anche Veronesi, come fece coraggiosamente e superbamente Dostoevskij nei Karamazov, non si identifica e non identifica il suo personaggio con il Santo, il Puro della storia (in questo caso Enoch) ma sceglie per sé e per il suo alter-ego uno spazio misto, colpevole e profondamente, dannatamente umano. Così come Dostoevskij non fu il buon Alesa né tantomeno lo Starec Zosima, ma il colpevole (almeno moralmente) Ivan, Veronesi è Pietro Paladini e non Enoch. La possibilità della svolta, dell'estasi, della purezza e della bontà esiste, ma non è per tutti. Non a caso Virgilio non poté accompagnare Dante in Paradiso. Eppoi, sarà l'ebraico Leviatano Isaac Steiner ad inghiottire tutto e tutti...

La Verità come Regressum ad Originem: l'atto sessuale come primitiva forma di conoscenza

Ecco che la verità in Caos Calmo si configura come un continuo regressum ad originem, come un primitivo ritorno allo stato naturale (alla bestialità animale, verrebbe da dire) e questo regressum è rappresentato in maniera folgorante dall'atto del sesso, prima fisicamente metaforizzato nel caso del salvataggio della sconosciuta assieme al fratello Carlo, poi messo brutalmente in atto (seppur con un tenace senso di colpa da parte di tutti e due) verso la fine del libro, con la stessa persona, ormai non più sconosciuta. Ecco che nel primordiale atto conoscitivo le distanze si annullano e le persone, anche nella loro palese diversità, diventano un Uno (così come accade nella potentissima scena che vede Pietro fumare col fratello Carlo, vero elemento caotico e prodigiosamente positivo dell'intreccio, dell'oppio, con la piccola Claudia che dorme a pochi metri di distanza). Stessa primordiale conoscenza, stessa primitiva, quasi prometeica unità, stesso senso di colpa. (E' da notare che anche l'intero processo narrativo de I fratelli Karamazov, e la sua conseguente potenza filosofico-morale, sono tenuti insieme dall'atavico concetto della rifrazione della Colpa che accomuna tutti i protagonisti e, insieme a loro, tutti gli uomini rendendoli ugualmente colpevoli. Tranne, come si è detto: i Pazzi e i Bambini).

La psicoanalisi nell'opera letteraria: Veronesi tra Svevo e Berto

Un ruolo trasversale ma ubiquo è rappresentato in Caos Calmo dalla presunta funzione salvifica, rasserenante, ancorché spesso inutile, della psicoanalisi. Poco importa di quale tipo si tratti. La diffidenza che Pietro-Sandro prova per tale pratica, che per buona parte del nostro secolo (il Novecento) è stata presentata quasi come una panacea-religione, è la stessa dei due grandi scrittori italiani che più degli altri hanno costruito sul freudianesimo un anti-sistema letterario. Nell'opera di Veronesi, come accadde sia per Svevo che per Berto, essa non è altro che un filtro e un contrasto comico su cui far vibrare le necessarie corde dell'irrimediabilità del dolore e della morte.

Miller, Céline, Melville: la Bestemmia o Dioniso che danza

Un aspetto che lega Veronesi alla più grande tradizione tragico-epica occidentale è la visione dionisiaca che si manifesta improvvisa nel suo romanzo come una violenta e dolorosa ed ebbra epifania: Dioniso appare, si svela, in modo evidente in Caos Calmo in svariati punti cruciali, come a dare una profonda scossa elettrica al lettore che crede di sapere dove andrà a parare l'autore. Alcuni dei casi pù manifesti, ma non ne mancano altri più sottesi e nascosti, sono: la mail che Pietro scopre nel PC di Lara dopo la sua morte (che pare scritta da Dioniso stesso in preda ad un'allucinazione), la bestemmia salvifica di Enoch (come non ricordare le ripetute bestemmie di Achab nell'estasi dionisiaca mentre assoggetta l'equipaggio a sé) e l'esplicito riferimento allo sterco nell'atto sessuale che chiuderà l'anello sacro-sacrificale della storia intera (a tale riguardo si possono assolutamente citare le straordinarie pagine del Tropico del Cancro di Miller dove lo sterco e il sublime si fondono in un unico amplesso estatico scritturale). Non è trascurabile, per la percezione estetico-linguistica dell'opera, come il linguaggio di Veronesi sia crudo, mai edulcorato o manieristico, ma lavico e matericamente violento ed espressivo come lo furono, e lo sono tuttora, quelli di un Céline o di un Alfred Doblin.

Il Capolavoro sfugge anche al controllo del suo autore: Michelangelo, Nietszche, Joyce

Si potrebbe continuare a lungo ad osservare le straordinarie scintille di senso che Caos Calmo lascia, dopo un'attenta lettura, dietro di sé: come fosse una miracolosa ed incendiaria cometa nella notte. Si potrebbero elencare, come fa Pietro Paladini nelle sue curative e favolose liste, le luccicanti citazioni che l'autore lascia nel suo dettato come pepite notturne e lucenti: dal grande Caetano Veloso che intarsia velatamente un dialogo di assoluta bellezza, alle ripetute citazioni di Dostoevskij, spesso gettato in modo improvviso nel testo come un fulmine-sasso che irrompe in modo cruciale negli occhi del lettore, alle sorprendenti citazioni cinematografiche (tra cui spicca l'intenso accenno al Grande Lebowski dei fratelli Coen), agli elegantissimi elementi pop che percorrono tutta l'opera, al felliniano e superbo uomo della pommarola, ai grandi eroi sportivi dei cui nomi e gesta è disseminata l'intera storia letterale di quel testo così grande, feroce, così profondamente umano. Ma più s'indaga un'opera d'arte, come diceva Rilke, e più ci si allontana da essa. E se la scrittura di Veronesi per certi versi affronta (e vince) le impossibili e bellissime strozzature Joyciane, a me piace pensare Sandro mentre scrive il suo capolavoro, come al vecchio e pazzo Nietszche che, passeggiando solitario per la casa, si mette a piangere come un bambino non appena scorge, su un tavolo malconcio, oppure nella sua ormai morente libreria, il suo Zarathustra... E ancora di più penso a lui come al povero, grandissimo e testardo Michelangelo (citato magnificamente nel libro) che diventa cieco mentre affronta per quattro, fulmineamente infiniti anni, la sua tremante Sistina... E, in fondo, ogni grande opera non è soltanto di chi la crea, ma anche e soprattutto, di chi ne può godere appartato nel miracoloso ventre della propria solitudine... Di chi, come noi, non aspetta altro che un libro, quell'ingiallito, potente e fragilissimo libro: possa cambiargli per sempre la vita.