Prato, 24 novembre 2013 - QUANDO la banca pensa di essere in credito di 116mila euro e invece viene condannata a pagarne 310mila. E’ l’esito, senz’altro non comune, di una sentenza di primo grado firmata dal giudice Gianluca Morabito nella causa civile che ha visto di fronte la curatela del fallimento di un noto gruppo tessile con sedi a Prato e Montale e un istituto di caratura nazionale.

La premessa della vicenda non aggiunge molto alla lunga lista di casi simili in Italia e nel distretto: un gruppo fallisce e la banca viene ammessa allo stato passivo per una certa cifra, in questo caso circa 35mila euro. L’istituto però fa opposizione perché ritiene di dover avere di più, molto di più: oltre 116mila euro.

IL PROCEDIMENTO va avanti e viene redatta una perizia tecnica da parte del Ctu che per la banca riserva una sorpresa: non solo le cifre richieste non tornano, ma è addirittura debitrice dell’azienda per aver applicato, secondo il consulente, tassi usurari ed aver preteso spese e commissioni non dovute.
A quel punto l’avvocato Paolo Donati, incaricato dalla curatela del fallimento, introduce una causa davanti alla sezione civile del tribunale di Prato per quantificare esattamente l’importo che l’istituto avrebbe dovuto riconoscere sul conto corrente principale dell’azienda. La perizia viene ulteriormente approfondita e la cifra che salta fuori è incredibile: 309mila euro.

NELLA SENTENZA c’è un passaggio che riporta la perizia stessa: «Il tasso di interesse passivo effettivamente applicato dalla banca — scrive il Ctu — considerando l’intero ammontare delle competenze rivenienti dai c/c anticipi e c/sovvenzione (i conti correnti dell’azienda nella banca erano più di uno, ndr), risulta superiore al tasso soglia e di conseguenza gli interessi addebitati devono considerarsi usurari». Per questo il Ctu nella sua relazione determina in 309mila euro la cifra che la banca dovrebbe corrispondere alla curatela «tenendo conto dell’intero ammontare delle competenze, spese e commissioni scaturenti dagli ulteriori conti correnti», oppure in 83mila nel caso dovesse essere considerato un unico conto corrente.

Al termine delle sue valutazioni il giudice ha ritenuto «di dover optare per la prima soluzione» rilevando fra l’altro che l’unico contratto stipulato fra la banca e l’azienda risaliva addirittura al 1982 e che anche la commissione di massimo scoperto applicata doveva essere considerata nulla perché non concordata fra le parti.

NON SOLO, leggendo la sentenza il giudice Morabito si spinge a fare una considerazione di carattere generale: «Le clausole relative alla commissione di massimo scoperto presenti nei contratti bancari si limitano genericamente ad indicare la percentuale di commissione di massimo scoperto applicata al conto, senza specificare su quali importi e per quali periodi venga applicata». Ne deriva che anche il contratto fra l’azienda e la banca fosse da considerare nullo «non risultando in alcun modo specificato su quali importi, per quali periodi e in base a quali criteri» fosse applicata la clausola. Infatti «un contratto per essere valido richiede che l’oggetto sia determinato o determinabile, diversamente risultando impossibile, per il cliente, comprendere la reale entità della commissione e verificarne la corretta applicazione da parte dell’istituto di credito». Nel caso specifico l’applicazione della clausola di massimo scoperto aveva determinato un debito per l’azienda di oltre 15mila euro.

IL GIUDICE ha condannato dunque la banca al pagamento di 310mila euro (309mila determinati dalla perizia più altri mille), frutto dell’applicazione di tassi ritenuti usurari, di spese e commissioni non dovute.
Il legale della curatela ha chiesto la compensazione con i debiti accertati dell’azienda fallita, mentre i difensori dell’istituto hanno presentato appello contro la sentenza del tribunale. Nel frattempo, però, la banca ha pagato.

 

di Leonardo Biagiotti