Firenze, 30 novembre 2009 - L’uomo che ha inventato Benigni da anni incassa successi nei paesi che furono della Mitteleuropa, applausi e critiche favorevoli in Germania, in Svizzera, nelle Repubbliche ex jugoslave. Qui a Prato (e più in generale in Italia) passa invece inosservato. Il vecchio detto "nemo propheta in patria" che gli si cuce addosso come un blazer di sartoria, "anche se — dice ridendo — di certo io non sono un profeta".

No, Paolo Magelli non è certo un profeta, piuttosto un uomo di teatro, capace con le sue regie di affabulare e stupire. La vita artistica fin qui l’ha attraversata sui palcoscenici di mezza Europa, spesso al fianco di figure straordinarie come Giorgio Strehler o Pina Bausch. Propria la notizia della morte della coreografa tedesca, nel giugno scorso, gli ha provocato come "un terremoto nella testa". "I frammenti della memoria — racconta, inframezzando il narrare con lunghe pause — sono come i monumenti che restano lungo le strade balcaniche dell’impero romano, quelle attraversate dalle legioni di Flavio: ogni tanto, da Mostar alla Romania, emergono monumenti straordinari, tracce indelebili di una storia che è stata ma non è più". Monumenti di ricordi felici e di quelli meno felici: "Come quando nell’89 volevo portare Pina Bausch a Prato e, al Fabbricone, non mi ricevettero neppure. Porte chiuse in faccia e via".

L’altalena della vita, probabilmente. Pratese di Giolica, e dunque di quel piccolo mondo che arriva fino alla Castellina e che si chiama dei centopini ("anche se non si capisce il perché, visto che in quel luogo casomai ci sono cento cipressi..."), la sua città comincia da lì. Per l’esattezza dal teatro dei Cappuccini dove, insieme a Leo Toccafondi, suo compagno di classe, fece la conoscenza con gli assi del primo palcoscenico. La scintilla del teatro che si accende precocemente. "Anche perché una parte della mia famiglia era molto legata al teatro. Sem Benelli era parente di mia madre".
 

Ricorda il primo spettacolo che ha visto?
"Come no! Da bambino, una pessima Turandot al Metastasio".
 

La lirica al Metastasio...
"Sarebbe una delle cose che il teatro dovrebbe coltivare. Il Metastasio è un ambiente ideale per Mozart. Invece...".
 

Da bambino frequentava anche gli altri teatri?
"Andavo spesso anche al Magnolfi dove arrivavano le compagnie vernacolari, Odoardo Spadaro, Alfredo Bianchini".
 

Una Prato che riempiva i teatri più di adesso...
"Una Prato culturalmente eccezionale. Dal Metastasio alle pagliette del Buzzi, c’era voglia di mostrare la particolarità di questa città, non solo fabbrica".
 

In quegli anni nasce il suo Teatro Studio: che cos’era?
"Era la dimostrazione che la classe dirigente di allora, sia di governo che di opposizione, aveva fiducia nei giovani. Ci diedero in mano un teatro, con la possibilità di inventare, di costruire".
 

Un’esperienza per voi fantastica...
"Portammo a Prato l’avanguardia. In città arrivò il Living Theatre, Carmelo Bene viveva al Metastasio, anche Julian Beck e Judith Malina presero casa qui".
 

Quasi una capitale del teatro europeo...
"Riuscimmo a portare un signore come Giancarlo Cobelli con i suoi spettacoli che facevano infuriare il pubblico. Con lui c’era un giovane attore non molto talentuoso ma intelligente che si chiamava Massimo Castri. E poi c’era un uomo che si era innamorato fortemente di Prato, e al quale sono legato a doppio filo: Giorgio Strehler".
 

Un fermento che coinvolgeva la città intera...
"Ricordo che dopo i consigli comunali passavano al “Teatro Studio” Giorgio Vestri e Liliana Rossi, Bruno Dabizzi e Paolo Benelli ma anche Ottone Magistrali".
 

Maggioranza e opposizione riuniti dal teatro...
"Prima in consiglio comunale si offendevano e si tiravano le monetine. Poi venivano da noi e ci portavano a cena al Sassodoro. C’era come un rapporto di tifoseria nei confronti di questi giovani che crescevano col teatro".
 

Oltre a sostenervi, vi capivano anche?
"Mah. Noi eravamo ispirati da figure come Armand Gatti, che sosteneva di volere un teatro che divide, non di borghesi".
 

Andiamo bene...
"Noi lo interpretammo, però, non come un momento di divisione ma come un’occasione di proselitismo".
 

E cominciaste così a portare il teatro nelle Case del Popolo...
"Fummo il primo teatro a fare decentramento. Ionesco e l’avanguardia nelle Case del Popolo".
 

Come vi accoglievano i frequentatori abituali?
"Malissimo, perché per fare lo spettacolo portavano via i tavoli dove giocavano a ramino. Così ci mandavano a quel paese".
 

Andavate solo nei circoli di sinistra?
"Macché. Siccome ad andare solo nelle Case del Popolo ci sentivamo zoppi, chiedemmo di andare anche nei circoli Acli. E grazie a Roberto Faggi ce la facemmo".
 

I cattolici come vi accoglievano?
"Sempre male, come nei circoli Arci. C’era già come una sorta di par condicio".
 

In quel tempo, col “Re Nudo” di Schwarz, fece esordire un attore destinato a un certo successo...
"Lo ricordo ancora. Telefonai a Umberto Cecchi alla “Nazione“: “Ho trovato due ragazzini bravissimi. Lei è piccina, lui non riesce a parlare italiano e si esprime solo in toscano. Però è perfetto. Vieni a vederli”. Lei era Pamela Villoresi, lui Roberto Benigni".
 

Com’era Benigni a quei tempi?
"Travolgente come adesso. Aveva già nel suo repertorio tutte le canzoni poi messe in mostra. All’Ulivo Rosso, dove praticamente vivevamo, iniziava a suonare la chitarra e smetteva solo a notte inoltrata".
 

Senza Prato Benigni non sarebbe stato ciò che è?
"Assolutamente no. Lo ricordo quando a Vergaio giocava a biliardo per vincere mille lire e potersi così comprare i libri. Non aveva uno per fare due".
 

E con Benigni e la Villoresi giravate la provincia con i vostri spettacoli...
"A Carmignano, che per me è sempre stato un posto magico e che, a differenza di Poggio a Caiano, non è mai stato sciupato, c’era un sindaco che stravedeva per noi: Guido Lenzi. Con Benigni e la Pamela andavamo a fare spettacolini e feste contadine".
 

Si intuiva già la grandezza di Benigni?
"Assolutamente. Utilizzare la poesia come volgarità e la volgarità come poesia faceva già parte della sua estetica e della sua cultura".
 

Benigni animale da palco...
"Roberto ha raggiunto l’apice della fama con il cinema, ma per me è un pessimo regista. Credo, infatti, che lui sia qualcosa di più: un grande interprete del suo tempo, legato al teatro".
 

Chi è più “pratese“ fra Benigni e Nuti?
"Benigni. Anche se non è nato a Prato, ha qualcosa dei cenciaioli di un tempo, analfabeti ma aristocratici".
 

Nuti invece?
"Ha più del 'borghese', forse rappresenta meno questa città".
 

Torniamo al Teatro Studio: qualche tempo dopo a Prato è arrivato un certo Ronconi...
"Sì" (risatina).
 

La sua è stata una grande stagione culturale o un disastro economico per la città?
"Vede, la mia vita è stata segnata da Strehler. Credo dunque più al teatro come servizio sociale. Per questo vorrei una Toscana con 174 piccoli teatri di produzione, mi piace la bottega...."
 

Ronconi non le piace insomma...
"Ronconi per me è un disastro, il tradimento dell’idea stessa di arte come servizio. Il suo teatro, infatti, è convento, bunker, vive in una solitudine pittorica".
 

Un bunker fra l’altro costoso...
"In quel teatro c’è un grande dispendio di energie e di soldi, il risultato è il distacco dalla città".
 

Non è un problema solo di Ronconi...
"Anche Castri aveva questo problema. Solo che lui ha fatto diventare il Metastasio un teatro stabile. Ha compensato il suo isolazionismo con un lavoro sociale".
 

Insomma, dovesse misurare lo stato di salute del teatro italiano?
"Malatissimo. Il teatro italiano oggi è legato alle piccole mafie, come quella degli attori che devono guadagnare un sacco di soldi. E poi le mafie dei produttori, quelle degli agenti. Un teatro fuori dalla realtà".
 

Non ci va certo leggero col suo mondo...
"L’Italia del teatro dal punto di vista culturale è un’isola delle capre con l’una che dice all’altra: “Ma come sei brava, ma come sei bella!” Fanno all’amore in stanze piene di sale e si autoincensano. Risultato: quando vai all’estero, l’Italia del teatro non esiste".
 

Eppure il teatro italiano ha una sua storia gloriosa....
"Il teatro italiano di oggi è solo un gioco perverso dove quattro critici decidono chi è bravo e chi no. Un buttare via soldi con migliaia di festivalini che non vogliono dire niente. I soldi sono fondamentali, ma vanno spesi diversamente".
 

Investire in cultura in piena crisi economica non è un controsenso?
"Vede: un grande intellettuale ungherese come Georgy Lukas, dopo l’invasione dei russi nel ’56, sosteneva: Se vogliamo far rinascere questo Paese, adesso che non abbiamo niente da mangiare, dobbiamo dare tutti i soldi per la scuola, per la cultura e per la sanità".
 

Non è un paradosso?
"No. Un popolo imbecille non potrà mai uscire da nessun tunnel".
 

Cosa servirebbe allora a Prato per ripartire?
"Servirebbe mobilitare la città per renderla creativa. Tornare a guardare ai giovani, dire loro: 'Va bene scrivere sui muri, ma facciamo qualcosa insieme' ".
 

Uno spirito nuovo...
"Per uscire dalla crisi bisogna risvegliare lo spirito, non il corpo.Questa città ha sempre avuto un estremismo spirituale, quel: 'O vai, ora te lo fo’ vedere io' col quale ha risolto molte cose. Ecco, da qui occorrerebbe ripartire".