Morì al pronto soccorso: a processo l’infermiera che tagliò il cavo

Roberto Sibaldi, 69 anni, viveva grazie a un dispositivo cardiaco. I familiari «Vogliamo solo la verità»

Ospedale (Foto di repertorio Germogli)

Ospedale (Foto di repertorio Germogli)

Pistoia, 27 settembre 2014 - È STATA RINVIATA a giudizio con l’accusa di omicidio colposo l’infermiera che, la sera del 20 marzo del 2012, nel pronto soccorso del vecchio ospedale del Ceppo, tagliò inavvertitamente il cavo del dispositivo cardiaco che teneva in vita Roberto Sibaldi, 69 anni. L’uomo morì pochi minuti dopo e i familiari, che lo aspettavano nella sala d’attesa, chiamarono i carabinieri: sul caso la Procura di Pistoia aprì un fascicolo. Ieri mattina, il giudice per le udienze preliminari Roberto Tredici ha rinviato a giudizio l’infermiera Rita Murgia, 59 anni: la donna, che dovrà rispondere di omicidio colposo, è difesa dall’avvocato Andrea Niccolai del foro di Pistoia. L’Asl 3 è stata chiamata in giudizio come responsabile civile ed è rappresentata dall’avvocato Stefano Pinzauti, del foro di Prato (ieri era presente l’avvocato Cristina Meoni), mentre i familiari di Sibaldi, la moglie Esterina Catavoli, e i figli Alessandro e Linda, si sono costituiti parti civili e sono rappresentati dagli avvocati Elisabetta Vinattieri, del foro di Pistoia, Corrado Alterini e Annamaria Fasulo del foro di Firenze. Il processo inizierà il prossimo 17 dicembre. Roberto Sibaldi, cardiopatico, nel 2011 si era sottoposto a un delicato intervento presso l’ospedale San Raffaele di Milano, dove gli era stato applicato un moderno dispositivo cardiaco, l’ «L Vad», che gli aveva restituito la vita. Il dispositivo era impiantato nel ventricolo sinistro e usciva fuori dall’addome dove era collegato ad un alimentatore. La sera del 20 marzo 2012 Roberto Sibaldi ebbe uno scompenso cardiaco e fu trasferito d’urgenza al Pronto soccorso. In collegamento da Milano c’erano anche i medici del San Raffaele che avevano dato disposizioni precise ai colleghi di Pistoia. ARRIVATO in pronto soccorso, furono attivate le manovre del caso: all’infermiera che prese in consegna il paziente fu detto di inserire un catetere vescicale e lei gli tagliò i pantaloni (come richiede il protocollo) per velocizzare le operazioni così, inavvertitamente, recidendo il tubicino del dispositivo cardiaco. «SONO SOLLEVATA che si vada a processo — spiega la figlia di Roberto, Linda Sibaldi — Quello che ci interessa è che venga fuori la verità sulla morte di mio padre e che si faccia giustizia, niente altro». «In questi anni — hanno spiegato gli avvocati della famiglia — ci saremmo aspettati una maggiore sollecitudine da parte dell’Asl, un interessamento e una disponibilità a sostenere la famiglia, nelle fasi successive alla morte di Sibaldi». «Noi ci difenderemo — ha detto l’avvocato Andrea Niccolai, che rappresenta l’infermiera, tutt’ora dipendente dell’Asl — Finora non è stato stabilito un nesso di causalità diretto tra la manovra attuata dalla mia assistita e la morte del paziente, le cui condizioni all’arrivo in ospedale erano compromesse». «Nessuno ci darà indietro il babbo — spiega Linda Sibaldi — Lui era il pilastro della famiglia, per mia madre, ma anche per le mie figlie che sono cresciute sotto la sua guida e con il suo esempio. Una perdita che nessun risarcimento potrà colmare». ​ Martina Vacca