"Premeditò di uccidere il fratello". Orefice, confermato l’ergastolo

La sentenza della Corte d’Assise d’appello respinge il ricorso

Il sopralluogo della polizia dopo il ritrovamento dei resti di Rosario (Castellani)

Il sopralluogo della polizia dopo il ritrovamento dei resti di Rosario (Castellani)

Pistoia, 1 ottobre 2016 - "Fu un delitto premeditato", e l’ergastolo è stato confermato dalla Corte d’Assise d’Appello, a Firenze. Luigi Orefice, così ha stabilito la Corte accogliendo la richiesta della pubblica accusa, pianificò l’omicidio del fratello Rosario al culmine di una serie di litigi per questioni finanziarie. Secondo l’accusa gli sparò un colpo di pistola alla testa, o forse lo schiacciò contro il muro con il muletto, una circostanza, questa, che l’autopsia sui poveri resti di Rosario non aveva consentito di stabilire con certezza, anche perchè la testa del giovane, così come le sue mani, non furono mai ritrovati. Poi, nel capannone della verniciatura di Ponte Stella dove i due fratelli avevano lavorato insieme, fece a pezzi il corpo di Rosario, probabilmente con un seghetto elettrico a lama circolare, e li infilò in un bidone di vernice per poi coprirli di sostanze acide. Quel bidone fu ritrovato per caso, il 26 marzo del 2014, quattro anni dopo la misteriosa scomparsa di Rosario, che aveva 38 anni.

E questi terribili momenti, sulla base delle lunghe e certosine indagini svolte dalla Squadra Mobile della questura di Pistoia, furono ricostruiti durante il processo davanti alla Corte d’Appello, che si concluse con la condanna all’ergastolo per Luigi Orefice, 47 anni, il 16 giugno del 2015. «Nessun altro – tuonò il pubblico ministero Claudio Curreli durante la sua potente requisitoria – poteva volere la morte di Rosario». E questa, insieme ai 23 gravi indizi analizzati minuziosamente dalla pubblica accusa, fu considerata una prova diretta. Il processo d’Assise d’appello (presidente Nencini) è stato breve. Ha richiesto due udienze. Davanti alla Corte i due ricorsi: quello del difensore di Luigi Orefice, che chiedeva l’assoluzione del suo assistito, che si è sempre professato innocente, e quello che il pubblico ministero Curreli presentò subito dopo la condanna di primo grado chiedendo appunto il riconoscimento della premeditazione, un elemento cardine nell’impianto accusatorio.

Il pm aveva chiesto anche l’isolamento diurno di Orefice (ovvero nessun contatto con gli altri detenuti nel corso della giornata), ma la Corte non ha accolto questa richiesta. Nel corso del lungo dibattimento la pubblica accusa aveva ripercorso in aula, in maniera dettagliata, la vita dei due fratelli nei mesi prima della scomparsa di Rosario. Aveva evidenziato i pessimi rapporti esistenti fra loro: Rosario non voleva il peso dei debiti accumulati dal fratello maggiore, voleva uscire pulito dal pantano finanziario in cui la ditta era finita e voleva rifarsi una vita. E Luigi Orefice, secondo l’accusa, avrebbe confidato i suoi feroci propositi alla sua amante romena. Secondo la ricostruzione della Mobile, coordinata dal vicequestore aggiunto Antonio Fusco, la morte di Rosario Orefice sarebbe avvenuta il 30 aprile del 2010, giorno in cui, dopo la telefonata di un istituto di credito, il giovane avrebbe saputo la vera entità dei debiti che gravavano sull’azienda di cui, dopo una precedente fase di difficoltà di Luigi, era diventato titolare. Ne sarebbe scaturito il litigio fatale. La parola finale passa ora alla Corte di Cassazione a cui il difensore di Orefice ricorrrerà