Pistoia, 16 febbraio 2010 - Dopo due richieste di archiviazione da parte della procura e un supplemento di indagini disposto dal gip, comincia domani il processo per l’emissione di diossina dal termovalorizzatore di Montale. Un episodio che portò all’immediata ordinanza di chiusura dell’impianto, nel luglio del 2007, e gettò allarme nella popolazione, con una scia di dissenso nei confronti dell’inceneritore che continua tuttora, attraverso i comitati che ne hanno chiesto ripetutamente la chiusura.

Domattina, davanti al giudice unico Rosa Selvarolo, compariranno Giorgio Tibo, 57 anni, all’epoca presidente del consiglio di amministrazione del Cis, gestore del termovalorizzatore, e Maurizio Capocci, 54 anni, originario di Terranuova Bracciolini (provincia di Arezzo), quale responsabile dell’impianto. Tibo è difeso dall’avvocato Cecilia Turco e Capocci dall’avvocato Andrea Niccolai, entrambi del foro di Pistoia. Tre i capi di imputazione, due dei quali, il primo e il secondo, sono contravvenzioni e poggiano sul decreto legislativo 133 dell’11 maggio 2005: attuazione della direttiva europea 2000/76 in materia di incenerimento dei rifiuti.

Il terzo è relativo alle emissioni di gas e vapori atti a cagionare offese alle persone, ai sensi dell’articolo 674 del Codice Penale. Più nel dettaglio, il primo capo di imputazione: Tibo in qualità di presidente del consiglio di amministrazione e Capocci come responsabile dell’impianto, sono chiamati a rispondere del superamento, nell’esercizio dell’attività di incenerimento, dei valori limite di emissione di diossine e furani, rilevati dall’Arpat l’11 luglio del 2009 (il prelievo risaliva al 3 maggio del 2007) e ulteriormente rilevati il 27 luglio. Più complesso il secondo capo di imputazione perchè poggia sul fatto che l’attività di incenerimento sarebbe stata mantenuta per più di 4 ore consecutive anche dopo essere venuti a conoscenza del superamento dei limiti di diossine e furani.

QUI il giudice fa riferimento alle rilevazioni del 6 e 27 giugno e 12 luglio del 2007.
«La norma però — come ci ha spiegato l’avvocato Cecilia Turco — distingue tra macro e micro-inquinanti, quali sono diossine e furani. All’epoca i controlli dell’Arpat venivano effettuati ogni 3-4 mesi e del prelievo di maggio si ebbero i risultati a luglio».

Il giorno 18 l’Arpat avvisò i sindaci, venne emessa l’ordinanza di chiusura da parte del sindaco di Montale e venne informata la Provincia. Il ruolo cruciale, in questa vicenda, lo giocano i carboni attivi per l’assorbimento dei fumi, forniti dalla ditta Gale e che, come è noto, sono stati ritenuti inadeguati alla funzione. Le difese, per questo processo, hanno nominato un proprio consulente, uno fra i massimi esperti nel settore dei termovalorizzatori, è il professor Giuseppe Liuzzo dell’università di Roma. 

«L’impianto — spiega ancora l’avvocato Turco — fu chiuso non appena venne comunicato l’esito delle analisi». Le analisi venivano svolte contemporaneamente dal laboratorio privato Idroconsult che avrebbe però, secondo la tesi difensiva, comunicato i risultati dopo l’Arpat. «Quello che si verificò — sottolinea l’avvocato — fu un evento imprevisto e imprevibile, che non è mai più accaduto». Pochi mesi dopo, il 29 novembre del 2007, i legali presentarono un esposto contro la Gale proprio per le caratteristiche del carbone. «La causa civile — ci ricorda l’avvocato Turco — non è ancora iniziata, c’è stato soltanto un accertamento tecnico preventivo sulla natura del carbone che non rispondeva ai parametri previsti dalla scheda tecnica».

L’iter del processo ha visto due richieste di archiviazione, la prima da parte del procuratore capo Renzo Dell’Anno il 4 settembre del 2008 e la seconda da parte del sostituto Emiliano Raganella il 30 gennaio 2009. Richiesta respinta dal giudice per le indagini preliminari Matteo Zanobini il 1 giugno scorso. Il giudice infatti, invitando il pm a a formulare i capi d’accusa, ha ritenuto gli elementi raccolti: «Oltremodo sufficienti a sostenere l’accusa in giudizio, in quanto la condotta omissiva non appare superata dall’argomentazione difensiva in ordine alla scarsa capacità assorbente della fornitura di carbone attivo». Il giudice, nel motivare la richiesta di rinvio a giudizio, spiega che dalle indagini è emerso che il Cis sarebbe stato a conoscenza delle immissioni inquinanti di diossine e furani in atmosfera ben prima del blocco dell’impianto. Da qui la necessità del vaglio dibattimentale sulle responsabilità.