Madeleine
 

Contatti impercettibili
Silenzio.
Tutto era impercettibile nella sua sensibilità.
Si ascoltava.
Si vedeva.
Ma non si guardava.
Ancora silenzio.
Soltanto la luce parlava, attenti al sussurro.
Parole nuove, parole lontane dalle voci umane, che penetravano nei pensieri più nascosti,
rivelandoli a riflessioni che accarezzavano l’animo.
Il risveglio di lei era una carezza.
 

La carezza era data da quel fascio pallido di luce: non era sole, quel bianco che illuminava ogni
singola cellula del divano, della finestra, del pavimento muto. Del suo viso di porcellana.
Erano le stelle a sfiorare la stanza e ogni altro elemento presente, a permettere di osservarla con
occhi nuovi, rari, che regalavano riflessi di tutt’altra sostanza.
Eppure non vi era la notte, ma le stelle c’erano.
Le lentiggini, nelle gote di lei, si schiusero.
Le palpebre danzarono, così che lei poteva vedere il mondo.
Le orecchie baciavano il tessuto del divano, quasi mordendolo.
La bocca color di mela sentiva il sapore dei fiori gialli disegnati in quel sofà.
La donna si era svegliata e pareva che ogni altra cosa in quella stanza prendesse parte al risveglio.
Di nuovo la luce filtrava dalla finestra, ancora le stelle senza notte.
Questi diamanti bianchi si disperdevano nella superficie delle scure verdi, ormai consunte dal
cigolìo delle finestre, rumore assai feroce in quell’atmosfera così dolce e fredda allo stesso tempo.
Un’illuminazione che andava oltre a ciò che si era capaci di vedere: si infilava nelle vene di quei
corpi, quasi come se li stesse rendendo vivi, ma conferiva una consapevolezza che andava oltre al
normale senso di esistenza.
Il respiro era interrotto dai riflessi della polvere scura, dal naufragio dei pensieri che cadevano
nell’oblio, alla sola vista di quel chicco d’argento.
La polvere, la poesia della polvere.
Lei posava la mano bianca verso i panneggi del divano freddo e si faceva attraversare da tutte le
curve, gli spigoli e i bordi di quelle frange di tessuto.
Contatti impercettibili.
La ragazza posava su quel divano bianco come se stesse dormendo, come se fosse un corpo solitario
in quella stanza, lei soltanto, nient’altro.
Le gambe, i cui colori somigliavano ai petali di rosa, sfioravano il fondo di quel letto muto, dal
quale i piedi pendevano soli, verso il vuoto.
Il vuoto, su cui cadevano i piedi di lei, in realtà costituiva un vortice di pensieri, sensazioni, contatti,
sguardi invisibili.
 

La ragazza non era sola; eppure sembrava tanto solitaria tra quei pezzi di carta sanguinanti che
pesavano sul pavimento, tra le pareti nude e sopra a quel divano gelido.
I panneggi del vestito chiaro della donna, pareva quasi che avesse strappato le ali ad una farfalla
bianca, si riunivano dentro ad una mano: così grande e rosea, che sembrava consumata dalle carezze
date.
I lineamenti, delle dita sottili, del polso- in cui si potevano osservare i battiti del cuore- e del
braccio, salivano fino alla spalla arrivando a toccare il collo addormentato.
La mano, per la sua morbidezza sembrava formata da tante nuvole, tratteneva l’estremità del
vestito: la dolcezza con cui lo sfiorava pareva andare oltre ad ogni possibile carezza.
Un uomo.
La testa di lui posava sul divano toccando appena le caviglie di lei.
Il corpo, dal quale si intravedeva una muscolatura quasi scolpita, rimaneva sospeso tra la parete
muta e il pavimento coperto di pensieri. Egli indossava il cielo: un vestito azzurro portava.
Le frange del sofà facevano solletico ai suoi fianchi curvi, rilassati in quell’equilibrio instabile: lui
sognava, immobile, intanto il mondo viveva.
La donna apriva gli occhi, sospesa anche lei in realtà, anche se posava sul tessuto del materasso.
Due anime così vicine, si sfioravano soltanto, perché al primo tocco avrebbero creato il fuoco.
Un fuoco dolce.
I capelli di lui somigliavano a quei rami scuri che si attorcigliavano tra le persiane verdi: anch’essi
si aggrappavano a qualcosa.
I ricci di lui rimanevano impressi, come una calamita, senza toccare nulla, con un’attrazione
nascosta, ai piedi magri della donna.
I rami a cui erano paragonati, invece, avvolgevano gli spazi vuoti e silenziosi delle persiane,
incorniciandole, legandosi con cura ad esse.
La finestra partoriva capelli di legno. Rami.
Il ragazzo mostrava capelli di seta: la leggerezza li rendeva quasi finti, impercettibili.
I fili di legno cadevano immobili dal davanzale, ancora neri e poi marroni fino a lasciarsi
abbandonare in quel luccichìo profondamente bianco delle stelle senza notte: brillavano di nuovo in
quella luce argentea.
Gli occhi di lei iniziavano a contemplare lo spettacolo delle ombre: i rami emergevano dall’ederache
si arrampicava oltre il vetro della finestra- con una tale forza e leggiadrìa allo stesso tempo, che
parevano dipinti.
Così avveniva la similitudine tra i capelli del giovane curvo e i rami secchi che fuggivano dall’edera
verde: vi era una certa eleganza nella posa di quell’essere umano fermo, che dormiva, in silenzio, in
quella stanza, accanto a una donna.
Forse quell’atmosfera suggestiva che si creava in quello spazio occupato da quei due corpi era data
dai fili di legno che, appesi come burattini, scendevano dalla persiana verde, tetri e lunghi.
Oppure dalle ombre nere che mangiavano i fogli bianchi sotto la finestra e li nascondevano nel buio
grigio.
 

Poteva influenzare le sensazioni che si percepivano anche il rumore della carta rotta-bianca
anch’essa- che somigliava a quello sfioro delle piume che si ascolta quando toccano la terra e
posano leggere.
Come i loro corpi chiari.
Avveniva una certa deragliazione dei sensi: questi iniziavano a sfumare, perché pareva vento quello
che permetteva al sottile libro chiaro, nell’angolo, di rimanere aperto; eppure tutto era fermo, ma si
percepiva come in movimento.
Chissà quante parole volavano tra quelle righe, del manoscritto,chissà quanto dolore provava quel
foglio ad essere inciso da quel liquido nero, l’inchiostro, capace di liberare parole, cristallizzarle in
un corpo e renderle immortali.
Chissà se quelle due anime potevano leggere quei pensieri, senza guardarli.
Pareva possibile questo fenomeno: tutto ciò che riempiva quella stanza riusciva a comunicare
brividi, parole, simili a sussurri. Sussurri fatti di carezze, conferite da elementi senza vita.
Eppure la si poteva cercare, la vita, anche in quelle pieghe dei fogli, in quei panneggi del divano, in
quelle pareti nude.
Intanto le palpebre del giovane si mossero.
Le ciglia lunghe graffiavano la sua pelle rosa, dandogli solletico.
Con la mano che non tratteneva il lembo del vestito di lei, si asciugò gli occhi dai sogni e si preparò
ad osservare anche lui le stelle senza notte: la luce bianca che filtrava dalla finestra.
Anche nei suoi occhi si riflettevano i rami scuri: portavano il colore degli alberi, marroni.
Lei si accorse del risveglio di lui.
I pensieri esploravano lo spazio, le menti viaggiavano e i corpi erano lì, a guardarsi, senza parlare,
ad ascoltare i profumi degli occhi.
Cosi gli stessi occhi salivano e si arrampicavano nei contorti del divano, nelle sue curve morbide,
ma così lontane e dure parevano, che al primo sguardo conferivano brividi.
Una paura penetrava nelle loro iridi: data dalla solitudine di quei disegni pallidi, di quei fiori il cui
odore quasi somigliava a un profumo nascosto, immagini impresse nei pensieri di tutti coloro che
guardavano quelle figure disegnate nel tessuto.
Gli stessi motivi accarezzavano le pareti nude, le quali respiravano e il loro contatto con il corpo di
lui poteva cullare qualsiasi animo che poteva sentirlo.
Anche il braccio, la gamba, la testa, il collo della donna percepiva quel contatto: eppure non toccava
il muro grigio.
Pareti spogliate, pareti graffiate, pareti dalle quali non filtrava la luce di quelle stelle che
avvolgevano le scure verdi. Pareti dalle quali emergevano i colori della notte, che si intersicava tra i
buchi del muro, uccidendolo. Quei buchi neri, erano la notte senza le stelle.
Così in quell’infinito che si formava tra la luce che proveniva dalle stelle senza notte e dal buio che
proveniva dalla notte senza stelle, si creava un’atmosfera così intensa di sensazioni invisibili, di
riflessi sconosciuti, che scossero le anime di quei due esseri umani.
La ragazza dagli occhi verdi, si sollevò, seduta a guardarsi le gambe.
Il ragazzo si scompigliò i capelli, si leccò le labbra e si mise seduto anch’egli sul divano freddo, che
ora all’improvviso emanava calore.
Il caldo era dato dalla vicinanza di quei due corpi, anche se in realtà erano lontani.
Una vicinanza rara, che soltanto in certi momenti, con alcune persone e in determinati luoghi, si può
percepire.
 

Così succedeva tra quell’uomo e quella donna.
Comunicavano ascoltando il rumore dei loro respiri, osservando i battiti dei cuori, sfiorando i loro
occhi e mangiandosi la loro pelle.
Non si toccavano.
Lei si sfiorò i capelli di bronzo.
Il giovane si avvicinava.
Le sue dita chiare si muovevano come attratte da una forza nascosta proveniente dalla ragazza.
La giovane abbassava il capo contemplandosi il corpo chino.
Il ragazzo la osservò, penetrando con gli occhi nelle lentiggini di lei arancioni, nella sfumatura rossa
delle sue gote, nelle sue orecchie perlate.
Lei arrossì, benchè fosse già avvolta da un colore roseo.
Lei spostò lo sguardo verso i capelli di lui, immaginando di immergersi dentro.
La donna seguiva i lineamenti del viso del giovane: gli zigomi appuntini, ma dolci, le labbra baciate
dal tramonto, le sopracciglia che parevano disegnate.
Gli occhi di lei incontrarono gli occhi di lui.
Gli sguardi si accarezzarono.
L’armonia che si era creata quasi gli faceva paura.
I brividi più intensi provenivano da altri contatti: le mani, la poesia delle mani.
Fino a quel momento quei due corpi non si erano mai toccati.
Lui tese le dita, lei le porse a lui.
L’intreccio più profondo che mai.
Silenzio.

Francesca Vannini