"Sei sicuro che troverò quel che mi serve?"

"Non ti agitare"
"Non mi agito, voglio solo sapere se stiamo facendo un viaggio a vuoto"
"Nessun viaggio a vuoto, non esistono viaggi a vuoto"
"Questo lo dici tu"
"Certo che lo dico io. Fetta dopo fetta l'esistenza va a finire in gola al tempo"
"E questo credi che mi significhi qualcosa?"
"Dovrebbe. Anche quel che ti pare vuoto contiene in realtà qualcosa di te che scorre e che non torna. Perché non provare a goderselo in ogni caso dunque?"
"Perché tu sei un vecchio ed io no, ecco perché. Piangerò su queste boiate quando comprerò la mia prima dentiera"
 

Era quasi sera per le strade, giù tra gli alti palazzi del centro, luci già accese quando ancora si vedeva bene. I due filavano dritti sul marciapiede mantenendo una certa distanza. Sul ciglio, sfiorando con la giacchetta le auto in corsa, il giovane osservava il vecchio che scansando i passanti frugava loro nelle tasche. Caramelle, monete, scontrini accartocciati, sottraeva il tutto sorridendo con garbo. Peccato gli mancasse qualche dente. Per non parlare di quelli che ancora aveva, scuri e lunghi come pruni. Se non fosse stato per quella bocca le persone avrebbero improvvisato con lui passi di danza, cinte e violate dalle sue mani esperte, volteggiando estasiati come era solito accadere un tempo, quando il suo sorriso era di perla e il suo pugnale una scintilla. Il giovane non credeva a quelle storie. Neanche lo conosco che questo già mi racconta i fattacci suoi?! Ma perché non sta un po' zitto? Il vecchio per contro tornava ad evocare il passato ogni volta che fregava qualcosa: lo sfarzo dei palazzi, le dame austere, le sue dita affusolate e il sorriso annichilente della sopraffazione. Ah che tempi, che tempi signori miei!
Scesero una larga scalinata affondando tra due pareti di cemento. Gradini lustri, aiuole con piccoli alberelli, luci che dal pavimento illuminavano la facciata di un edificio simile a un alveare. Il vecchio si lisciò la barba rivolgendo perplesso gli occhi verso l'alto: <<Vorrei tanto sapere come si possa vivere in un posto del genere.>>
"Ma scherzi? La gente che sta lassù se la passa niente male"
"La gente che sta lassù si ammala"
"E di che?"
"Che ne so, mica sono un dottore, ti dico però che glielo leggo in faccia quando sono lì a fregargli la grana.>>
"Anche tu sembri malato"
"Macché, sano come un pesce"
"Si, un pesce marcio"
"Ma cosa vuoi saperne tu! Non ho più fatto una visita da quando partii per la guerra, eppure guarda che figurino" Allargò le braccia dopo essersi aggiustato enfaticamente il colletto sbrindellato e scoppiò a ridere simile a un fischio, colpa dell'aria incanalata là dove i denti mancavano. Il giovane scosse il capo e prima di girare l'angolo volse un ultimo sguardo rassegnato alla facciata di quell'edificio dove la gente non se la passava niente male.
 

Ma quali malati? Lo avesse avuto lui un appartamento del genere sicuramente non si sarebbe trovato a dover seguire quel tizio fuori di testa nella speranza di risolvere la situazione. Ficcò le mani in tasca e proseguì in silenzio, prendendo a calci l'aria tiepida della sera. Il vecchio intanto dava prova di gran disinvoltura nel gestire quella sua condizione di vita. Riusciva a scroccare di tutto: cicche, lattine mezze piene, quarti di pizza appena addentati, e spiccioli ovviamente, tanti spiccioli quanti buchi aveva nella camicia. Era così che l'aveva fregato fuori dal negozio. Aveva visto la sua espressione disperata, di quelle che lasciano intendere "e adesso come faccio?", ed era accorso in suo aiuto, tranquillo, ci penso io, sono l'uomo che fa per te, che ti serve? Certo, so dove trovarlo, seguimi, fanno cinquanta carte. Che altro avrebbe potuto fare? La festa era l'indomani e al negozio gli avevano detto che al più presto la consegna sarebbe avvenuta da lì a due giorni, questo è solo uno spazio espositivo, gli articoli che vede non sono in vendita, mi spiace, torni a trovarci, buonasera. Buonasera un cavolo, per di più che si stavano addentrando in una parte della città che detestava, fatiscente e squallida, piena di edifici dismessi e capannoni abbandonati.
"Dì un po', manca ancora molto? Con tutto quel che abbiamo camminato al ritorno dovremo prendere un taxi."
"Dovremo?"
"Certo, mi serve un aiuto per portare quel coso, come diavolo faccio da solo?"
"Non è un mio problema, fatti aiutare dal tassista."
"Senti, se vuoi l'altra metà dei soldi sarà il caso che tu mi aiuti capito? Non ho voglia di spiegare una cosa così assurda al primo venuto, men che meno a un tassista, quelli son buoni a riconoscerti anche a mesi di distanza mentre sei lì sul loro taxi con una ragazza e sputtanarti come niente fosse, roba già vista."
"E allora com'è che a me hai raccontato tutto?! Dovevi essere proprio disperato!"
"Disperato io? Ma crepa."
"Prima o poi ragazzo, prima o poi. Comunque fanno altre venti carte se mi vuoi su quel taxi." Così dicendo mise mano alla cerniera dei pantaloni e si fermò ad orinare contro un lampione.
"Ho sentito di uno che a far così è morto folgorato" Disse il giovane cercando di sfogare in quel modo la rabbia per l'ennesima contrattazione finita a suo disfavore.
"Ovviamente sei invitato." Rispose il vecchio intento a creare col suo getto il simbolo dell'infinito.
"Dove?"
"Al mio funerale."
"Ma di che parli?"
"Di quel che mi hai detto tu. Non mi hai forse augurato di crepare?"
"Già, prima però guarda di portami in quel posto."
"Ci siamo già."
 

Ai margini della strada, oltre un muro che cadeva a pezzi, si apriva contro il cielo un vuoto improvviso da cui non svettava alcun palazzo.
"La luce inizia a perdere forza, muoviamoci o non riusciremo a vedere niente là dentro" disse il vecchio facendo cenno al giovane di aiutarlo a scavalcare.
Dentro era come essere al parco. Strutture abbandonate ricoperte dal muschio, collinette di terra che nascondevano chissà quali carcasse, una fonda vasca di cemento piena d'acqua piovana. Tutt'attorno il decollare dei grattacieli, che rendeva quel luogo come un grembo straniero.
Attraversarono il prato. Si capiva essere quel che rimaneva di un largo piazzale dagli strappi nell'erba che rivelavano un sottocutaneo strato di macerie. L'aria era satura del gracidare delle rane che invisibili poggiavano le pance sul bordo della vasca, ormai diventata uno stagno. Quando i due vi passarono accanto fu improvvisamente silenzio. Erano intrusi in un luogo che aveva sepolto i modi dell'uomo. Parve come pioggia il fulmineo scrosciare dei piccoli corpi giù in acqua, per andarsi ad annidare sotto la melma, al sicuro. Adesso, anche se appena percettibile, tornava da lontano il rumore della città, come il grido di qualcuno che cerca inutilmente di attirare l'attenzione.
 

"Che storia, sembra di stare in quel pezzo dei New Order eh nonno?"
L'altro lisciandosi la barba lo guardò come da mille chilometri di distanza. Ma che vuol saperne questo, con i suoi valzer e le sue dame morte pensò allora il giovane, e fu tentato di colpire col palmo della mano una lamiera che svirgolava fuori dal terreno. Poco più avanti il vecchio si fermò. Il capannone dinnanzi a loro era sventrato e profondo. Il giovane a quel punto non seppe resistere allo stupore.
"Ecco, ti bastano? Ora sbrigati a scegliere, si sta facendo buio."
Lavandini, il pavimento ne era pieno a perdita d'occhio. Un frastagliato mare bianco di blocchi di ceramica.
"Ma dove mi hai portato? Non vedi che sono tutti rotti? Cosa dovrei farmene?"
"Ma via, neanche tu dovessi metterlo in una reggia. Me lo immagino il buco dove vivi, non fare il prezioso."
"Buco? Ma che vai dicendo? Il mio appartamento non è un buco, come avrei fatto altrimenti ad organizzarci la festa di domani?"
"Non ne ho idea, come non ho idea del perché tu stia facendo tutto questo."
"Perché quella è gente che sta attenta a tutto, mica posso lasciare il bagno senza lavandino. Verranno, soppeseranno, misureranno, commenteranno ed annoteranno, ne va della mia reputazione"
Infischiandosene il vecchio andò in giro a curiosare lasciandolo da solo a cercarne uno buono. Sfasciati, come tirati giù dal terzo piano, catarri secchi sputati a terra con insolenza, e un brulicare di ferro che penzolava oltre la sua testa dalla volta di quella cattedrale di smembro.  Il suo, a casa, stava in un angolo in condizioni simili dopo l'inconveniente di quella mattina. Maledetto lavandino, maledetto appartamento che cadeva a pezzi. Pensava a questo, tra tutti quei cocci, mentre le rane avevano ripreso a far vibrare le loro gole gonfie ed umide. Sembrava davvero quel pezzo dei New Order. E proprio allora, quando ormai pareva che non ci fosse più dove guardare lo trovò. O almeno così sembrava da quell'angolazione. Si avvicinò, cavolo era intatto, neanche uno sgraffio, liscio e bianco come una statua della Madonna. Poggiava a terra dritto, con la conca verso l'alto. Anche là c'era dell'acqua stagnante come negli altri, ma più si avvicinava e più aveva l'impressione di sentirne il rumore, uno sciacquettio quasi impercettibile. In ammollo, spostando l'acqua all'espandersi della sua gola un rospo enorme stava ficcato là dentro e lo guardava inespressivo. Il ragazzo si chinò per osservare meglio quella cosa mai vista, bestia assurda e molle.
"Non ci crederai, il capannone qui accanto è pieno di cessi!" disse il vecchio di ritorno dal suo giro. "Roba che in una vita potresti non cacare mai nello stesso da quanti ce ne sono."
Non ottenendo risposta si avvicinò per capire su cosa il giovane stesse chinato: "Per l'amor di Dio pare un cocomero! Che facciamo adesso? Sembra stare nell'unico lavandino intatto…"
Il ragazzo non rispose, a dire il vero neanche aveva sentito. Continuava a fissare il rospo, quel groppo lucido che dilatava e contraeva rapido il ventre, testa alta, sguardo inchiodato contro i suoi occhi. Provò a parlare ma non ci riuscì, voleva dire delle cose, roba di quando era bambino, roba umida e notturna, fresca come le soglie di primavera, ma non ci riuscì. Prese invece un pezzo di ferro da terra e provò a spostare la bestia che terrorizzata si contrasse e si appiattì contro la parete del lavandino, schiacciando la schiena, premendo pancia e gola contro il bianco sporco della ceramica. Ma non si mosse da là.
"Ma sei matto? Lascia stare quella bestia, molla qua!"
 

Su tutte le furie il vecchio strappò il ferro di mano al ragazzo e lo gettò lontano, nel tintinnio che rimbombando fece vibrare i resti degli ultimi vetri ancora attaccati alle finestre.
"Mai far del male agli animali, è una crudeltà che neanche il più scuro dei coltelli dovrebbe permettersi."
"Quel lavandino mi serve, che devo fare?"
"Di certo non rubarlo al suo attuale inquilino."
"E' lui che l'ha rubato a noi, tutto quaggiù è stato rubato all'uomo, sono queste rane i veri intrusi."
"Ti sbagli, è l'uomo che non ha più voluto saperne di questo luogo, di questi oggetti. Dovremmo andarcene, non c'è niente che ci appartenga quaggiù, non più ormai."
"Non posso esser senza domani, loro si sdegneranno, bisbiglieranno, ed io sarò finito." Aveva gli occhi lucidi, disperati, mentre il gracidare delle rane saliva dalla grande vasca attraverso gli squarci nelle pareti.
"Ma di che parli? Possibile che la tua vita dipenda da un lavandino?"
"La mia reputazione cavolo, la mia reputazione. Un bagno senza lavandino è come un uomo senza denti."
"Ragazzo mio, un tempo neanche esistevano i lavandini, ed i bagni si chiamavano latrine..."
"Un tempo, un tempo, un tempo, basta! Anche questo posto un tempo era una fabbrica piena di persone e di controlli e invece stasera siamo qui a rubare impunemente uno schifo di lavandino del cavolo! Le cose cambiano!"
E così fece l'espressione del vecchio, cambiando senza preavviso, bocca larga e risata come un fischio.
"Cosa cavolo ridi?"
Senza riuscire a parlare si limitò ad indicare il lavandino, vuoto. Il rospo non c'era più, andato chissà da quanto, mentre loro perdevano tempo a sputarsi addosso. Adesso, senza la presenza ingombrate dell'animale si vedeva il fondo della ceramica, sfondato come gli altri, ma coperto da un telo di nylon che tratteneva l'acqua.
Il giovane si sedette nella polvere, rassegnato. I bei vestiti insudiciati, i capelli scomposti. Guardava il vecchio, in piedi davanti a lui, lercio e divertito, che fischiava spandendo la sua risata per tutto il capannone, e non poté fare a meno di augurargli un attacco di cuore. Lo stesso attacco di cuore che sarebbe preso ai suoi ospiti l'indomani, così attenti alla precisione e alle buone maniere. E chissà come, senza volerlo, ebbe un pensiero che non era suo, che pur venendo da mille chilometri di distanza riusciva ad arginare il vuoto di quel buco:
Vorrà dire che gli ospiti si rinfrescheranno il viso nel bidè, non è mica la fine del mondo.

Emiliano Dalle Piagge