2009-06-29
di TITTI GIULIANI FOTI
- FIRENZE -
«ENZO FERRARI? So solo che mi ha chiesto di sposarlo fino all’88, anno in cui è morto. Ma io gli ho sempre detto no. Mai stata innamorata di lui: il mio unico amore è stato Luigi Musso. Anche se con Ferrari ho avuto un rapporto a dir poco meraviglioso». Rosso tango, verde germoglio, nero Cina e giallo flame. Flame che sta per Fiamma: Fiamma Breschi, che inventò i colori dell’auto più desiderata al mondo.
Una bella donna Fiamma, fiorentina che vive a Firenze, riservatissima. Unica e rara testimone della storia di una delle scuderie automobilistiche più famose del mondo, la Ferrari, appunto: simbolo stesso dell’Italia. Ricercata da scrittori, giornalisti e collezionisti del cavallino rampante di ogni parte del mondo. Nessuno è mai riuscita a incontrala negli ultimi anni. Molte le voci su di lei, una fra tutte: è sparita. Grazie alla collaborazione dello storico dell’automobilismo, Alessandro Bruni siamo riusciti a entrare nella sua casa-museo, vivo di ricordi, giornali e rari cimeli.
Signora Breschi, banalmente: cosa ha rappresentato per lei Enzo Ferrari?
«E’ stato un grandissimo amico. Un uomo meraviglioso, intuitivo, con un carattere difficile. Ma non come hanno inventato in tv, in quella fiction che non gli ha reso giustizia. Quando lo incontrai la prima volta ero con Luigi Musso, il mio compagno, un campione che Ferrari amava molto e che morì tragicamente nel circuito di Reims, Francia, nel 1958. Aveva 29 anni Luigi, eravamo tanto giovani. Conobbi Ferrari con lui e mi fece effetto: mi sembrava un contadino. Aveva una palandrana, i pantaloni consunti, alti fino alle ascelle, corti oltre la caviglia, i calzini bassi, un cappellaccio sgangherato in testa, Chiesi a Luigi: “Questo sarebbe Ferrari?”. Ma quella volta nacque una folgorazione tra noi. Diventammo subito amici. Dal primo momento si fidava istintivamente di me».
A sfogliare le sue foto vediamo una bellezza di oggi, signora: capelli con meches, occhialoni, magliettine e jeans a vita bassa...
«Credo di essere sempre stata un po’ avanti coi tempi, una cosa che mi è sempre venuta istintiva è stato proprio il look: amo da sempre l’accostamento di colori e capi d’abbigliamento. Vidi Ferrari e pensai subito che doveva cambiare. Era già un personaggio di grande spessore, e presentarsi così non era giusto. Per lui prima di tutto. Ferrari stette al gioco. Si affidò a me e gli inventai quello che poi è diventato il suo modo di vestire. Per esempio, prima indossava solo cravatte bianche e nere. Io da Firenze gli portavo quelle colorate, di Gucci. E allora cambiò idea anche lui. Disse di sì a colorarsi. A mettersi vestiti chiari, camicie bianche, occhiali neri. Su quello che gli consigliavo, lui annuiva, divertito. Anche se fuori dal nostro rapporto di amicizia so bene come si comportava soprattutto con i piloti della sua Squadra Primavera. Li metteva gli uni contro gli altri perché si stimolassero a vicenda, perché scattasse fra loro la competizione. Per questo lo chiamarono “agitatore di cervelli”. Per Ferrari i piloti in un certo senso erano robot che guidavano le sue macchine. E quando gli dicevo qualcosa sul suo modo di fare ruvido mi zittiva: “Mi ritengo peggiore degli altri, ma non so quanti siano migliori di me”».
Come incontrò Musso?
«In un ristorante a Roma: era già sposato. Appena ci guardammo sentii dentro che sarebbe stato l’amore della mia vita. Fu uno scandalo a quel tempo, perchè lui lasciò moglie e figlia. Eravamo innamorati persi, non ci importava del mondo. Poi tutto finì all’improvviso a Reims, morì in un incidente nel circuito. L’anno scorso sono stati i 50 anni dalla sua morte e ancora non c’è attimo della giornata che non pensi a lui».
Signora Breschi, è stata o no la donna segreta di Ferrari?
«Tanto segreta no. Compagna sì. Ma non in quel senso. Eravamo amici, era qualcosa di grande ma di platonico. Passavamo anche quattro ore al giorno al telefono. Forse è per questo che è durata tanto tempo la nostra relazione. Già dal 1962 mi voleva sposare, questo è vero, aveva pianificato anche gli assegni».
Come fu che fra Enzo Ferrari e lei l’amicizia si consolidò?
«Dopo la morte di Luigi si avvicinò a me con parole buone: volevo morire anch’io, inutile nasconderlo. Mi scriveva di andarlo a trovare, mi diceva di mangiare e tenermi su. Di fare lunghe passeggiate nel verde. Mi incoraggiava a vivere».
Un «Drake» inedito...
«Ho le sue lettere che lo testimoniano. Dopo la morte di Musso mi volle a Maranello, senza essere l’amante del capo, come pensavano tutti in quell’italietta provinciale. Avevo una mia classe e una mia cultura, forse Ferrari si sarà innamorato anche di questo. Mi volle come donna del paddock: nel senso che andavo per lui a scegliere auto e modelli, colori e piloti. Ideai il long nose, il muso lungo per esempio, a certe auto. O quelle bicolori che oggi sono tornate di gran moda. Lui si fidava e io non sbagliavo. Posso dire, prove alla mano, di aver contribuito alla crescita dello stile della casa di Maranello».
Qualcosa aveva la sua firma?
«Prima di Vuitton inventai nel ’66, un set di valige per la Ferrari 275, di tela stampata».
Ferrari a Firenze: da lei c’è mai stato?
«Due volte ed era un’eccezione: tutti sanno che da Maranello non si muoveva. Ma a Firenze veniva a mangiare a casa mia. Nel 1976 fece coniare una coppa a mia madre con il cavallino rampante con scritto: “A Clorinda, la cuoca più brava del mondo”».
Se le dico Dio a che pensa?
«È già bello che le nostre vite abbiano potuto accordarsi per un così lungo tempo, che non voglio pensare altro».