2008-08-10
di GIUSEPPE MEUCCI
C’È CHI DICE che di notte il fantasma della Bella Elvira si aggiri ancora nel bosco delle Purghe, uno dei più aspri e selvaggi in questo lembo di Toscana intorno a Toiano, fra Palaia e Volterra, teatro di un fatto di sangue che fece epoca. Cerca giustizia. Quella che non è riuscita ad avere dagli uomini. La sua morte è ancora oggi un mistero e il carnefice non ha un nome. O forse sì, ma non c’è nessuna sentenza che lo pronunci. E’ rimasto soltanto nella memoria della gente e qualcuno lo mormora ancora a bassa voce, senza prove. Le tagliò la gola con un colpo netto di coltello a quella bella contadina di ventidue anni che la mattina del 5 giugno 1947, giorno del Corpus Domini, era uscita di casa per attingere una brocca d’acqua al Botro della Lupa, una sorgente nel fitto del bosco.

E’ LI’ CHE successe tutto. I parenti, dopo averla cercata per ore, la raccolsero in un lago di sangue. Seminuda, senza gli indumenti intimi, mai più ritrovati, come il coltello affilatissimo che le aveva squarciato la gola soffocandola nel sangue. Ma l’autopsia escluse che quel che accadde prima della coltellata – se accadde – fosse riconducibile a una violenza sessuale. Si chiamava Elvira Orlandini. Viveva in famiglia, con i genitori e le sorelle, impegnata nei lavori di casa e in quelli del podere. Per il delitto incolparono subito il fidanzato Ugo Ancillotti, un povero diavolo anche lui, che poi fu assolto dopo due anni di carcere alla fine di un processo che si trasformò in uno psicodramma collettivo. Cominciò di fronte alla Corte d’Assise di Pisa, ma fu presto trasferito a Firenze. Ogni mattina si presentavano di fronte alla sede della Corte, in via Carmignani, a fianco del teatro Verdi, centinaia di persone che volevano assistere alle udienze per vedere l’Ancillotti rinchiuso nella gabbia degli imputati.

IN MEZZO a quella marea urlante di innocentisti e colpevolisti i giudici pisani non si ritennero in grado di garantire un equo giudizio e il processo si trasferì a Firenze. Ma anche lì successe di tutto. Ad alcune udienze assistettero, direttamente o indirettamente perché assiepate intorno alla sede della Corte fiorentina, almeno duemila persone. I bookmakers clandestini raccoglievano scommesse aggiornando le quote di ora in ora, a seconda del tenore di una testimonianza, di un intervento dell’accusa o della difesa. Fu un delitto che divise l’Italia fra innocentisti e colpevolisti e attirò sullo sperduto paese della Valdera un’attenzione morbosa che per la prima volta si coagulava intorno a un fatto di cronaca di sangue.

ERA PASSATA da poco la guerra, la gente era avida di notizie, voleva appassionarsi alle storie umane, anche violente. Fu così che il delittaccio di Toiano divenne un caso nazionale, seguito dagli inviati speciali di tutti i quotidiani italiani che pubblicavano resoconti quasi stenografici delle udienze. Quello del Corpus Domini fu il primo omicidio italiano a suscitare un’eco così ampia e prolungata. Durante il processo, prima a Pisa poi a Firenze, accaddero cose incredibili. Si fecero vivi i rabdomanti, i maghi, i veggenti, quelli che sanno tutto ma “debbono” rimanere nell’ombra, però scrivono. In una sola giornata arrivarono ai magistrati anche venti lettere anonime. In una metà c’era un nome, Ugo Ancillotti, nell’altra metà un altro. Quello sussurrato ancora oggi da chi ricorda quel truce delitto nel bosco delle Purghe.

ELVIRA era bella, corteggiata da molti che invidiavano il fidanzato prescelto, quell’Ugo Ancillotti che poi dovette difendersi da un’accusa tremenda. In paese – come si può immaginare – qualche chiacchiera correva, anche se ormai erano in vista le nozze. Lei a volte andava a servizio in una grande villa della zona, da gente di Roma, che in casa avevano un figlio coetaneo dell’Elvira. Quel giorno dimostrò di essere stato a Roma, grazie al verbale di una contravvenzione per divieto di sosta fatta a un’auto che apparteneva alla madre. Poi c’era un parente dell’Elvira sul quale si appuntò qualche sospetto che emigrò in America dove è morto qualche anno fa. Alla fine delle indagini, solo sul banco degli imputati, senza uno straccio di movente plausibile a suo carico, rimase Ugo Ancillotti.

PERCHE’, dunque, quella coltellata micidiale, senza scampo? Un rifiuto? Ma no, non era proprio il caso. La gelosia? Forse. Ma se il geloso fosse stato un altro? La curiosità intorno ai resoconti delle udienze e su certi particolari intimi della storia di quei due ragazzi di Toiano raggiunse quasi il parossismo quando Ugo Ancillotti fu interrogato (“quando è stata la prima volta…. davvero eravate in piedi ... e com’è stato possibile... lei era consenziente… ma forse c’era già stato un altro ….si è accorto di qualcosa…?). Alla fine il processo non riuscì a far luce su nulla e si concluse con una assoluzione. Anche se per insufficienza di prove, formula poi confermata in appello. L’accusa, convinta che lui avesse ucciso sconvolto dalla gelosia, aveva chiesto una condanna di 18 anni. Ugo Ancillotti, dopo due anni di carcere, tornò in paese acclamato come un trionfatore, custode di una verità che ormai apparteneva solo a lui. Qualunque fosse.

LA GIUSTIZIA aveva concluso i suoi riti arrendendosi di fronte al buio impenetrabile che ancora circonda il Botro della Lupa, dove il fantasma di un’esile figura femminile in certe notti si aggira in cerca pace. O almeno così si dice.