La lezione delle vite perdute: con Ceni l’arte ‘parla’ dal vero

A Pienza una personale di grande forza e fascino

Una delle opere in mostra

Una delle opere in mostra

Pienza, 7 novembre 2014 - E’ UN POETA, Alessandro Ceni. Perfettamente conscio della sapienza feroce di quella belva rara e sfuggente che noi – a corto di linguaggio adeguato – definiamo grossolanamente poesia. Il fatto che lui decida di oggettivarla, questa sua capacità di ‘sentire’ (non è un privilegio, si badi, ma spesso una pratica di umiltà) per verba o per plastica non muta il risultato. Non cambia, semmai esalta, la potenza del risultato. Che appare davanti ai nostri occhi in tutta evidenza, se si accetta di essere liberi, e coraggiosi, in questa sua ‘personale’ in terra di Pienza. Perché il poeta-artista Ceni compie – raccogliendo ossa, tracce di vite trapassate, secchezze di legni senza più acqua e morbidezze – un atto nei suoi effetti semplice e terribile, attutito da una apparente placidità, da una perseguita e raggiunta compostezza.

Certo, c’è la struggente assenza della linfa e della polpa, nelle sue opere in mostra (una sensazione di perdita irrimediata, per chi non possa resistere all’abbandonarsi all’elegia, all’evocazione). Ma c’è anche e soprattutto un’altra alchimia, un’altra (involontaria?) lezione filosofica, che a Ceni riesce per via di meticolosi, ruvidi accostamenti, di spietate cuciture e fissaggi. Una sacralità senza religio, nelle sue ‘reliquie’, una dignità senza supponenza e gigantismo, nei suoi minimi Prigioni che abitavano, un tempo, i bassi cieli o le erbe delle campagne. Vite che hanno pulsato, strisciato, fiutato gli steli e poi (dopo un qualsiasi fatale dolore) lasciato la propria minuta esistenza a macerarsi sotto l’acqua o il vento radente dei boschi.

Nelle sue opere – tutte quelle in mostra sono state create nell’ultimo decennio, e molte non sono state mai viste prima – quello che ‘sta’, che ‘parla’ è la verità. Sì, sbilanciamoci. La verità: elementare, ciclopica nella sua finitezza: ciò che resta di quelle vite è questo, il simulacro che ancora mostra una forma, un ultimo guizzo di parvenza: la piccola serpe nella sua ‘esse’ scomposta, l’arruffìo di penne dell’uccello ucciso, la piatta sagoma di un rospo. E ossa. E, ancora, rami secchi, legni invecchiati: forse le forme più vicine – per essenzialità – alla polverizzazione del passato.

Perché è questo che il titolo ‘Dal vero’ (nel suo voluto plurisignificato) proclama: guardate, vedete, sentite. Lasciatevi turbare, colpire allo stomaco, scoprite le innumerevoli forme del passare. Dell’impermanenza. Ceni si incarica di essere scomodo (ma se glielo chiedete dirà che la scomodità è solo una sensazione vostra, non un dato reale) dandovi scabre icone che scuotono. Tra l’altro la morte – o l’ombra della vita che è stata temporanea abitatrice di quegli esseri – si trova a proprio agio nella luce chiara che irrompe dalle finestre lunate della Fabbriceria. Si esalta, crocifissa o legata com’è, quando il sole riflesso da campagna tra le più desiderabili al mondo la lambisce, toccando tele, tutori, squame. Non c’è da meravigliarsi di questa ossimorica potenza, di questo crinale. E’ arte, è filosofia, è sguardo a occhio asciutto su esistenza e persistenza. E’, in definitiva, amore per la verità. Che, come chi si picca di sacro sa, ci rende liberi.

‘Dal Vero’ - Pienza, Sale della Fabbriceria della Chiesa Cattedrale. Fino al 16 novembre. Orario: tutti i giorni dalle 15 alle 18; sabato e domenica dalle 11 alle 18.

ppc