{{IMG_SX}}Firenze, 11 marzo 2009 - "La mattina scriveva per i giornali, parlava con gli editori, prendeva appunti per i suoi romanzi. Aveva collaborazioni con 'La Nazione', 'Il Resto del Carlino' e il 'Tempo' . Partecipava ai premi, 'Viareggio' e 'Strega' da giurato e spesso come scrittore. E si arrabbiava non poco se qualche conoscente diceva: “Io non leggo La Nazione, ma solo giornali nazionali. L’ho sentito furioso rispondere: “Sei un vero provinciale. I giornali che devono essere letti sono quelli che rappresentano la nostra realtà, quella dove si vive. Gli altri non contano”.  Alessandra Saviane è vedova dello scrittore Giorgio dal 2000. "Era un vostro collaboratore e quanto ci teneva a questo rapporto con La Nazione", racconta.

 

Una differenza d’età enorme tra voi: oggi non si nota più trent’anni fa sì... "Entrai a lavorare per lui nel ’73 col ruolo di segretaria dello scrittore, mi ero appena diplomata avevo sui vent’anni. Lui come si sa in primis era avvocato civilista e aveva rapporti con le più importanti famiglie fiorentine". Come lo conobbe? "Ancora una volta c’entra La Nazione. Misi un annuncio proprio sul giornale che lui leggeva ogni mattina, dall’inizio alla fine. Avevo studiato lingue e cercavo un impiego. E’ attraverso La Nazione che ci siamo conosciuti. E lui già aveva una collaborazione con la terza pagina. Ricordo che scriveva quelli che allora si chiamavano elzeviri. All’inizio sporadicamente, poi ebbe una rubrica definitiva dal titolo “La poesia ci salverà” che continuò le sue pubblicazioni dal 1989 al 1995".

 

E’ vero che gli scrittori hannotempi diversi dai giornalisti per scrivere? "Eccome. Ricordo le telefonate che arrivavano dal giornale e reclamavano pezzi immediati, magari commenti su quello che accadeva in quel momento. Suonava il telefono a ore incredibili, lo chiamavano e entrava in crisi. Era più forte di lui: non poteva sfornare un articolo e farlo per subito. Saviane era molto scrupoloso con la pagina scritta, quasi maniacale". Cosa faceva? "In un certo senso per lui le pagine erano sacre. Ci lavorava subito e di getto con la sua penna dall’inchiostro verde. Ricordo che lo chiamarono anche per commentare la bomba dei Georgofili. Ma per lui era un problema scrivere di getto. Nella sua mente, un pezzo buttato giù, andava lasciato riposare almeno mezza giornata. Diceva: “Se la rileggi il giorno dopo noti le ripetizioni o se ti sei dilungato troppo”. Ricordo che di getto era capace di scrivere tre cartelle, poi tagliava fino ad arrivare a due".

 

Ha influito 'Eutanasia di un amore' nella vostra vita? "E’stato un romanzo a modo suo rivoluzionario che ha venduto più di un milione di copie, che gli ha dato tanto successo. Era nato a Castelfranco Veneto e si laureò a Padova ma si stabilì a Firenze. E qui ebbe la gioia immensa di essere stato accettato da questa città. 'Eutanasia di un amore' è ambientato proprio qui. Non a caso". Era pignolo anche per scrivere romanzi? "E’ arrivato a fare anche quaranta stesure. Conservo ancora pacchi di pezzi di pagine dell’epoca. Mica come oggi col computer. Prima, anche per rimettere insieme gli articoli, si tagliava la carta con le forbici e si riattaccavano i pezzi con lo scotch".

 

La prima cosa che le torna in mente ripensando a Saviane? "Che tipo era un tipo un po’ pazzo. Uno scrittore con tante donne, con amanti e figli nati fuori dal matrimonio. Che era un igienista, cultore del suo corpo. E che scrisse 'Voglio parlare con Dio' per protesta. A 79 anni giocava a golf, saliva e scendeva le scale a piedi, andava in barca anche per scrivere. E fu colpito da un ictus. Non glie l’ha perdonata a Dio, fino alla morte. Non gli era sembrato giusto finire così".