Rene tolto per errore al San Luca. Tre medici a giudizio

‘Spero nella giustizia, ma vivo un incubo’

Guido Dal Porto

Guido Dal Porto

Lucca, 5 aprile 2017 - «Io spero proprio che venga fatta giustizia, perché da quel 14 aprile dello scorso anno vivo in un incubo che non auguro a nessuno. Ho perso il mio rene sano, mi resta soltanto una parte del sinistro, quello malato, e temo di finire prima o poi in dialisi. L’incubo maggiore è un’eventuale ricaduta del tumore, che purtroppo non è affatto improbabile vista la leggerezza con cui sono stato trattato. Io sono ancora in regime di detenzione domiciliare, ma intanto i tre medici sono al loro posto di lavoro e l’Asl finora non mi ha dato un euro. Questa è la realtà, questa è l’Italia...». A parlare così, la voce rotta dall’amarezza e dalla rabbia, è Guido Dal Porto, ex imprenditore 57enne di San Ginese, al quale un anno fa all’ospedale «San Luca» venne asportato per errore il rene destro sano, al posto di quello sinistro affetto da tumore. Una vicenda choc di cui parlò tutta Italia. Ora finalmente è stata fissata la data del processo: il prossimo 13 luglio. A giudizio, davanti al giudice Stefano Billet, andranno Claudia Gianni, medico radiologo che aveva refertato la Tac, commettendo un errore materiale con scambio del lato destro per il sinistro; Stefano Torcigliani, medico urologo che effettuò l’intervento chirurgico e Giuseppe Silvestri, urologo di Pescia, che era il secondo operatore in sala. L’accusa formulata dal pm Elena Leone, che li ha citati direttamente a giudizio saltando la fase dell’udienza preliminare, è di lesioni personali gravissime, aggravate da colpa medica. Accuse suffragate dalle consulenze del professor Davide Vicini, urologo e docente universitario di Pavia, e del medico legale Luca Tajana, noto anche per la relazione sull’autopsia di Yara Gambirasio, la 13enne di Brembate di Sopra uccisa nel 2010. L’indagine, affidata ai carabinieri del Norm di Lucca e del Nas di Livorno, era scattata un anno fa sulla base della denuncia presentata dal paziente tramite l’avvocato Veronica Nelli. «Era l’ora che fissassero la data del processo – commenta Guido Dal Porto –, mancano solo 10 giorni alla data fatidica di quel 14 aprile dello scorso anno quando al San Luca mi fecero quel bel servizio, sbagliando a togliere il rene sano. Un banale errore sul referto della Tac, uno scambio di lato destro per il sinistro. Sembra una cosa da poco vero? Ma io da allora mi ritrovo scaraventato in un incubo allucinante e quotidiano». Si sforza di restare calmo, Guido Dal Porto, ma non è facile conservare un equilibrio. «Devo dire che è dura sotto il profilo psicologico e fisico. Se mi avessero fatto un lavoro corretto, in base alle statistiche avrei il 95% delle probabilità di sopravvivenza, di non avere ricadute della malattia. Invece nessuno sa dirmi cosa mi aspetta. Vivo alla giornata. E spendo di tasca mia per le analisi e le visite. L’Asl finora non mi ha dato un euro. Ogni mese devo effettuare esami del sangue, un’ecografia da un esperto di fiducia in libera professione. Devo rivolgermi al privato e pagarmeli perché altrimenti i tempi di attesa vanificherebbero la programmazione, non posso andare al Cup. Insomma una beffa dietro l’altra». «Come si vive senza un rene e con l’incubo di ammalarsi all’altro? Male. Malissimo. In dialisi – sottolinea – non ci sono ancora finito grazie a Dio. Perché se il rene peggiora, dovrò farla. Per fortuna il secondo intervento all’ospedale della Versilia, quello del dottor Massimo Cecchi, andò bene a giugno. Ma ogni notte mi sveglio in preda a smanie e incubi, batto i pugni nel muro. Purtroppo anche mia moglie e i miei figli vivono questo dramma quotidiano e mi dispiace tanto per loro. Oltretutto aspetto la Grazia, ma sono ancora in regime di detenzione domiciliare, con tanti limiti. Io mi sforzo di stare zitto, di trattenere la rabbia e la disperazione. Ma a volte mi vengono giù da sole le lacrime. Ho una spada di Damocle sulla testa. E non ne ho certo colpa io. I medici in questione continuano a lavorare in ospedale. Ecco, vorrei che si mettessero nei miei panni».